Introduzione
L’esternalizzazione dei servizi è una pratica comune nelle grandi aziende. Tuttavia, a volte, questa pratica può nascondere un fenomeno noto come “appalto irregolare”.
Cos’è l’Appalto?
L’appalto è un contratto in cui un’azienda (committente) affida a un’altra azienda (appaltatore) il compito di realizzare un’opera o un servizio. L’appaltatore ha piena autonomia nell’organizzazione del servizio, inclusa la gestione del personale.
Appalto Irregolare: Definizione
Un appalto diventa irregolare quando l’appaltatore non svolge realmente il ruolo di datore di lavoro nei confronti dei suoi dipendenti, ma agisce piuttosto come intermediario tra il committente e i lavoratori.
Come Identificare un Appalto Irregolare
Secondo l’art. 1655 del Codice Civile, l’appalto autentico si caratterizza per l’autonomia di gestione e organizzazione dell’impresa appaltatrice rispetto alle prestazioni o servizi da fornire al committente. L’impresa appaltatrice assume il rischio di impresa investendo in beni e forza lavoro per raggiungere gli scopi aziendali.
Nell’appalto non genuino, l’impresa committente esercita un controlo e un’organizzazione effettiva sulla forza lavoro dell’impresa appaltatrice, determinando completamente le modalità di esecuzione delle attività e i risultati attesi.
Ci sono diversi segnali che possono indicare la presenza di un appalto irregolare. Uno di questi è rappresentato dal fatto che i dipendenti dell’appaltatore ricevono ordini dal committente o utilizzano gli strumenti di lavoro del committente. Inoltre, un appalto non genuino si verifica quando il servizio fornito dall’impresa appaltatrice è a beneficio esclusivo del committente, l’impresa appaltatrice non dispone di mezzi sufficienti per svolgere l’attività in modo indipendente e il rischio di impresa viene spostato interamente sul committente. È importante prestare attenzione a questi segnali per evitare di incorrere in appalti illeciti.
Alcuni indici sintomatici degli appalti illeciti includono la richiesta da parte del committente di un certo numero di ore di lavoro, l’inserimento stabile del personale dell’appaltatore nel ciclo produttivo del committente, e la proprietà delle attrezzature necessarie per l’espletamento delle attività in capo al committente.
Rischi dell’Appalto Irregolare
In caso di appalto irregolare, sia l’appaltatore che il committente sono esposti a rischi legali. In particolare, i lavoratori che prestano servizio nell’ambito dell’appalto possono richiedere al giudice del lavoro di essere riconosciuti come dipendenti diretti del committente e di conseguenza ottenere il pagamento delle differenze salariali.
Tuttavia, la legge prevede alcune protezioni per i lavoratori in caso di appalto irregolare.
Legittimità dell’Ente Previdenziale:
L’Ente Previdenziale ha il diritto di agire per confermare l’esistenza di un rapporto di lavoro tra il committente e il lavoratore in caso di appalto irregolare, e quindi far valere le relative pretese contributive.
Rivendicazione di un Rapporto di Lavoro
L’Ente Previdenziale può rivendicare la costituzione di un rapporto di lavoro con chi ha utilizzato la prestazione del lavoratore ma non ne è formalmente il datore, in caso di appalto irregolare.
Ruolo della Corte di Cassazione:
La Corte di Cassazione ha confermato che, in tema di mancato pagamento dei contributi previdenziali, può essere accertata la natura fittizia del rapporto con il datore di lavoro interposto, dando all’Ente Previdenziale il diritto di applicare le relative sanzioni.
Azione del Lavoratore non Necessaria
Non è necessaria l’azione preliminare del lavoratore interessato per l’accertamento della natura fittizia del rapporto e la conseguente costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore effettivo.
Con riferimento all’appalto irregolare, è stata riconosciuta la legittimazione dell’Ente Previdenziale a proporre un’azione per far valere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra committente e lavoratore.
Regime Previdenziale e Rapporto di Lavoro
È stato sottolineato che il regime previdenziale non può essere condizionato all’iniziativa del lavoratore che denuncia l’irregolarità, e che il rapporto di lavoro rimane autonomo da quello previdenziale, nonostante siano connessi.
Fondamento Legale dell’Azione dell’Ente Previdenziale:
L’azione dell’Ente Previdenziale, volta all’accertamento dell’esistenza in fatto di un rapporto di lavoro subordinato tra l’utilizzatore e il lavoratore, trova fondamento nell’art. 2094 c.c. e non nelle disposizioni in materia di appalto irregolare. Non è impedito a nessuno di far valere la nullità degli atti interpositori che sono oggetto di sanzione.
Per la Cassazione, sentenza 32412 depositata oggi, in tema di interposizione fittizia di manodopera, la norma
relativa alla somministrazione irregolare, per identità di ratio, si applica all’appalto non genuino
Più tutela per i lavoratori oggetto di interposizione fittizia di manodopera. Anche nell’appalto di servizi, e non solo
dunque nella somministrazione di manodopera, in caso di licenziamento da parte del datore di lavoro formale, il
rapporto di lavoro si costituisce con il datore di lavoro sostanziale. Lo ha chiarito la Sezione lavoro della
Cassazione, sentenza 32412 depositata oggi, adita in udienza pubblica a seguito di ordinanza interlocutoria della VI
Sezione, per il rilievo della questione posta.
Secondo la Suprema corte, infatti, “la norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 80-bis del Dl 19
maggio 2020 n. 34 (aggiunto dalla legge 17 luglio 2020 n. 177) riguardante la somministrazione irregolare, è
applicabile, per identità di ratio e di tutela, anche alle ipotesi (come quella in esame) di appalto non genuino, per
quanto riguarda il licenziamento intimato dal datore di lavoro formale”.
È stato così respinto il ricorso di Sda Express Coruier s.p.a. contro la decisione della Corte di appello di Napoli che
aveva confermato l’esistenza di un rapporto di lavoro e disposto la riammissione in servizio di una lavoratrice
licenziata da una piccola ditta che lavorava in appalto con la società di trasporti. I giudici di secondo grado avevano
accertato che la donna pur dipendente da altra società “avesse svolto fin dall’inizio del rapporto di lavoro (da luglio
2002 al 3.8.2016) la propria attività alle dipendenze della committente”. In particolare, era “diretta e controllata dai
dipendenti della SDA, i quali agivano come suoi superiori gerarchici”. Le direttive impartite e il controllo si
sostanziavano “in un’attività espressione del potere organizzativo e direttivo nei confronti della lavoratrice
utilizzata nell’appalto”. In questo quadro, anche le ferie e i turni erano concordati dalla lavoratrice direttamente con
l’azienda più grande.
L’articolo 80-bis citato ha così disposto: “Il secondo periodo del comma 3 dell’art. 38 del decreto legislativo 15 giugno
2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o gestione del
rapporto, per il periodo nel quale la somministrazione ha luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha
effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di
lavoro non è compreso il licenziamento”.
L’applicazione anche all’appalto non genuino in mancanza di un rinvio normativo diretto, prosegue la decisione, si
giustifica “rappresentando un criterio esegetico di natura generale e di principio, posto a protezione dei lavoratori
coinvolti in fenomeni interpositori irregolari o simulati mediante contratti di somministrazione di lavoro o di
appalto di servizi non genuini (ossia di non coincidenza tra datore di lavoro formale e sostanziale)”. E ciò in forza,
oltre che di ragioni sistematiche, “della sovrapponibilità dei testi normativi di cui all’art. 27 comma, d.lgs. n.
276/2003 (cui l’art. 29, comma 3-bis, d. lgs. n. 276/2003 rinviava, poi abrogato) e 38, comma 3, d.lgs. n. 81/2015”.
Si tratta, conclude la Cassazione, dell’espressione di un “criterio ermeneutico decisivo per giungere a identiche
conclusioni con riferimento a patologie di contratti di lavoro interpositori assimilabili quanto al divieto di
interposizione al di fuori delle ipotesi previste e quanto alle tutele apprestate dall’ordinamento per il lavoratore”.
Appalti endoaziendali: controllo del committente e divieto di intermediazione
Fonte: Cass. Civ. sez. lav., 22 novembre 2023, n. 32450
Teresa Zappia
29 Novembre 2023
Non può escludersi a priori il controllo da parte del committente del servizio oggetto di appalto.
In caso di appalto c.d. endoaziendale al committente è precluso qualsiasi controllo, anche se con modalità determinate, del servizio appaltato?
Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti c.d. endoaziendali, ossia quegli appalti caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo al primo, in quanto datore, l’assolvimento dei soli compiti di gestione amministrativa del rapporto di lavoro (es. retribuzione, pianificazione delle ferie), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione lavorativa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico ed effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo.
La giurisprudenza di legittimità ha, però, ritenuto necessario distinguere l’ipotesi in cui i rapporti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore siano gestiti direttamente dal committente da quella in cui quest’ultimo eserciti solo i poteri di controllo sull’esecuzione del servizio appaltato. In tale ultimo caso, infatti, non potrebbe operare il divieto summenzionato, non potendo essere preclusa al committente una verifica, secondo modalità predeterminate, dell’esecuzione del servizio reso mediante l’appalto.
In senso conforme
Cass. Civ. sez. lav., 10 giugno 2019, n. 15557
Cass. Civ. sez. lav., 26 ottobre 2018, n. 27213
Illegittimità dell’appalto endoaziendale
Costituisce canone ermeneutico ormai consolidato della Corte di Cassazione quello secondo cui l’illecita interposizione si verifica in relazione ai cosiddetti appalti “endo-aziendali”, in cui oltre alla gestione amministrativa del rapporto (ad esempio in tema di retribuzione e gestione dei tempi di lavoro e di quelli di ferie), il committente assoggetta altresì i dipendenti dell’appaltatore ai poteri direttivi e di controllo
Cass. Sez. Lav.,
ord. 22 novembre 2023, n. 32450
Pasquale Dui
Avvocato in Milano
Professore a contratto di diritto del lavoro
Antonio Beccaria
Avvocato in Milano
Docente aggiunto di diritto privato
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LA MASSIMA
Divieto di intermediazione ed interposizione – appalti “endoaziendali” – messa a disposizione di una mera prestazione lavorativa – sussiste
Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto.
Cass. Sez. Lav., ord. 22 novembre 2023, n. 32450
Con sentenza conforme a quella del giudice di prime cure, la Corte d’Appello di Napoli rigettava, nel secondo grado di giudizio, il ricorso di una lavoratrice, formalmente alle dipendenze di una società addetta, ex multis, all’attività di revisione e manutenzione dei carri nel contesto di appalti ferroviari.
Detta attività veniva svolta dalla lavoratrice con sottoposizione al potere direttivo di una società terza (appaltante); la ricorrente deduceva pertanto la sussistenza dell’illecita interposizione di manodopera, secondo quanto previsto dall’art. 1, l. 1369/1960, domandando alla Corte Territoriale l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 cod. civ., e la conseguente ricostituzione della posizione lavorativa in capo a quest’ultima società.
La Corte partenopea rigettava il ricorso, in quanto riteneva che dalle risultanze processuali non emergessero le prove idonee a dimostrare la gestione del rapporto tout court in capo alla società committente.
Gli eredi della lavoratrice proponevano dunque ricorso per Cassazione, affidandolo ad un unico motivo.
Nello specifico, la parte ricorrente deduceva (ex art. 360, comma 1, n. 3 e 5) violazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ., oltre che degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., asserendo che l’impugnata sentenza si discostasse dai principi espressi sul punto dalla Corte di Cassazione, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, in relazione alla questione dell’accertamento del fenomeno interpositorio (e delle sue condizioni di illiceità) e in tema di non contestazione (di cui il richiamo all’art. 115 cod. proc. civ.), atteso che nel giudizio di appello la società convenuta aveva ammesso, in modo a sé sfavorevole, che vi era effettivamente, nella gestione del rapporto di lavoro, uno “sdoppiamento” funzionale tra le due società, in ragione del fatto che una società si occupava degli aspetti amministrativi, mentre l’altra (committente) si occupava del controllo tecnico.
Sul punto, peraltro, la Corte d’Appello aveva correttamente ricordato come debba essere effettuato un distinguo tra l’ipotesi di gestione dei rapporti di lavoro dei lavoratori posti alle dipendenze dell’appaltatore viene effettuata direttamente dal committente e l’ipotesi in cui il committente medesimo limita la propria attività ai poteri di controllo relativamente alla corretta esecuzione delle obbligazioni oggetto dell’appalto; tale prerogativa non può essere negata al committente (sia pure secondo modalità predeterminate).
Secondo la Corte napoletana, la configurazione del rapporto “triangolare” de quo era inquadrabile nella seconda fattispecie, quella per così dire “fisiologica”, da cui derivava, come si è già detto con doppia pronuncia conforme, la liceità del comportamento della committente e il diniego alla domanda di accertamento del lavoro subordinato della ricorrente in capo alla stessa, considerando altresì che parte ricorrente aveva omesso di indicare le ragioni di fatto poste alla base delle decisioni di merito, come invece previsto in casi analoghi dalla giurisprudenza della Cassazione[1].
Chiamato ad esprimersi sul punto, il giudice di legittimità, chiarita la questione relativa alla (solo denunziata, ma) non argomentata natura apparente della sentenza oggetto di ricorso, in ordine al tema di merito giuridico la S.C. osservava come costituisca canone ermeneutico ormai consolidato quello secondo cui l’illecita interposizione si verifica in relazione ai cosiddetti appalti “endo-aziendali”, in cui oltre alla gestione amministrativa del rapporto (ad esempio in tema di retribuzione e gestione dei tempi di lavoro e di quelli di ferie), il committente assoggetta altresì i dipendenti dell’appaltatore ai poteri direttivi e di controllo, come affermato da una lunga serie di sentenze, anche recenti e tutte conformi, della stessa S.C.[2].
Chiarita la definizione del perimetro circa la liceità (o meno) degli appalti endoaziendali, la S.C. passava ad occuparsi della parte di ricorso relativa alla presunta ammissione, da parte della società convenuta, “di concreta gestione del rapporto di lavoro”; tuttavia, la S.C. ha ricostruito come tale ammissione costituisca una mera estrapolazione, non debitamente contestualizzata, inserita in una parte del proprio atto finalizzata a dimostrare di aver esercitato solo la parte di poteri e diritti legittimamente attribuibili alla committente; peraltro, osservava la Cassazione che la censura muoveva da una «inesatta configurazione dell’ambito applicativo del principio di non contestazione che per essere utilmente invocato deve riferirsi a precise circostanze fattuali e non, come viceversa avvenuto nel caso di specie (…) ad espressioni meramente qualificatorie, inidonee a sostituire la necessità di procedere al concreto accertamento fattuale della situazione dedotta dalla Corte»[3].
In ragione di tutti i motivi sopra esposti, la S.C. rigettava il ricorso. Le spese legali seguivano il principio di soccombenza.