Una recente ordinanza della Suprema Corte ha stabilito che, se adeguatamente provato dal datore di lavoro, lo scarso rendimento del dipendente può essere considerato come giustificato motivo soggettivo per il licenziamento disciplinare.
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 27 novembre 2019, confermava la decisione del Tribunale di Treviso secondo cui sussisteva il giustificato motivo soggettivo di recesso: nel decidere in tal senso, la Corte territoriale applicava la norma del contratto collettivo che qualificava come licenziamento per giustificato motivo quello fondato sul notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore.
Nel dettaglio, il giudice d’appello aveva convertito il recesso per giusta causa (precedentemente intimato dal datore) in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente riconoscimento dell’indennità di mancato preavviso.
Da ultimo, nel caso qui in esame, la Corte giungeva alla conclusione che, pur essendo l’inadempimento del lavoratore limitato nel tempo (periodo da novembre 2015 ad aprile 2016, ed in particolare riferito al primo trimestre 2016 ai fini della comparazione con i suoi colleghi), la sua intensità (ossia lo scarso rendimento in termini di visite a clienti e raccolta) era stata notevole in tale arco di tempo.
Ragioni della decisione
A fronte del ricorso del lavoratore, la Suprema Corte – richiamando la propria precedente giurisprudenza in materia – ha evidenziato quanto segue:
a) nel licenziamento per scarso rendimento, rientrante nel “giustificato motivo soggettivo”, il datore – cui spetta l’onere della prova – non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o la sua oggettiva esigibilità, ma deve anche dimostrare che esso deriva da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione;
b) nel caso in esame, il lavoratore aveva fatto visita a un modestissimo numero di clienti e aveva reso una prestazione lavorativa insufficiente nel primo trimestre 2016, limitata all’acquisizione di un solo cliente: in particolare, durante tale arco temporale, egli aveva effettuato complessivamente 16 visite a clienti e/o filiali (rispetto alle 120 degli altri colleghi dell’ufficio sviluppo) e acquisito un solo cliente; tali dati sono stati posti a confronto con i dati di produzione (raccolta impieghi) degli altri colleghi – enormemente superiori a quelli del ricorrente – sì da concludere per l’effettività dello scarso rendimento e della sua gravità;
c) dalle testimonianze acquisite nel corso del giudizio, era emerso che fosse da escludere che il lavoratore (il quale aveva già una pregressa specifica esperienza nelle mansioni e anche nel medesimo territorio) fosse stato emarginato o avesse avuto a disposizione dotazioni e tecnologie insufficienti o diverse da quelle dei colleghi: quindi, il giudice di secondo grado ha formato il suo convincimento sul punto specifico che il lavoratore non versava in una situazione in cui gli era impossibile adempiere correttamente alle proprie mansioni nel campo dello sviluppo, ciò in base a prove testimoniali ritualmente acquisite nel processo;
d) in particolare, il giudice di merito correttamente ha comparato i dati relativi all’attività del ricorrente e quelli relativi all’analoga attività di suoi colleghi in simile posizione nel settore sviluppo, e ha apprezzato l’inadempimento addebitato insieme “alla mancanza di elementi obiettivi che giustifichino la riduzione dell’attività” dell’interessato, con conseguente ritenuta dimostrazione che il suo scarso rendimento fosse a lui imputabile a titolo quanto meno di colpa;
e) infine, ad avviso della Suprema Corte, il licenziamento per cosiddetto scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso da parte del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore, sicché, fermo restando che il mancato raggiungimento di un determinato risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento da essi può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo.
Ne è conseguito il definitivo rigetto del ricorso e la condanna del lavoratore anche al pagamento delle spese del giudizio.
Il Tribunale di Pisa
Il Tribunale di Pisa si conforma all’orientamento giurisprudenziale prevalente che riconduce lo scarso rendimento nell’alveo delle motivazioni soggettive di recesso
LA MASSIMA
È legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
Il fatto
La vicenda muove dal recesso intimato ad un lavoratore con mansioni di addetto al magazzino, impiegato in una struttura presso la quale veniva svolta un’attività che richiedeva il rispetto di tempistiche serrate (115 colli processati ogni ora da parte di ciascun addetto nel settore “ZO” e 160 nel settore “FM”).
Con riferimento alla prestazione lavorativa resa dal ricorrente, invece, è emerso quello che il Tribunale ha definito come «un significativo scostamento» rispetto ai tempi di lavorazione prescritti: scostamento quantificato in una media di 91 colli all’ora anziché 115 per la giornata del 31 luglio 2014; 64.67 colli anziché 115 nel periodo dal 18 al 23 agosto 2014; 67,27 colli anziché 115 nel periodo dal 1° al 6 settembre 2014; 64.69 colli anziché 115 nel periodo dall’8 al 30 settembre 2014; 74,60 anziché 115 nel periodo dal 9 al 18 ottobre 2014 e, infine, 64,21 colli anziché 115 per la zona “ZO” e 97.53 colli (anziché 160) per la zona “FM” del magazzino nel periodo dal 1° al 31 maggio 2015.
Il mancato rispetto, da parte del lavoratore, dei tempi medi di lavorazione gli era valso la comminazione di sei sanzioni disciplinari nel corso di un biennio, e la recidiva nell’inadempimento era sfociata nell’intimazione di un licenziamento per giusta causa.
Il lavoratore ha impugnato sia il licenziamento sia le diverse sanzioni disciplinari previamente contestategli quale recidiva denunciandone una generica «infondatezza» e deducendo di «aver cercato in ogni modo di svolgere al meglio la propria attività lavorativa».
Dal canto proprio la società si è difesa, in primo luogo, eccependo sia l’assenza di una specifica contestazione degli addebiti integranti il licenziamento sia l’intervenuta acquiescenza alle sanzioni disciplinari già comminate (mai precedentemente impugnate) e, in secondo luogo, sostenendo la piena legittimità del recesso in quanto fondato su fatti sussistenti nonché comprovati, oltre che sostanzialmente non contestati.
Lo scarso rendimento come motivo di licenziamento
Fattispecie come quella in esame, che vedono protagonisti lavoratori la cui performance si colloca stabilmente al di sotto delle aspettative del datore di lavoro, impone una riflessione su di un istituto, quello del licenziamento per “scarso rendimento”, la cui collocazione sistematica è ancora al centro di un acceso dibattito tra gli interpreti.
Accanto ad una concezione tradizionale, largamente predominante in giurisprudenza, che riconduce lo scarso rendimento nell’alveo delle motivazioni soggettive di recesso, se ne affianca infatti una seconda (fatta propria dalla Corte di Cassazione con la nota pronuncia del 4 settembre 2014, n. 18678) che dà rilievo ad una dimensione anche oggettiva dello scarso rendimento, che prescinde cioè dalla sussistenza di una colpa imputabile al lavoratore.
Secondo la prima opinione, per scarso rendimento si intende una violazione del dovere di diligenza del lavoratore subordinato (art. 2104 cod. civ.), che a sua volta è espressione del generale obbligo di collaborazione dettato dall’art. 2094 cod. civ.
In questa prospettiva, il “rendimento” rappresenta uno degli elementi del giudizio datoriale sull’esatto adempimento della prestazione lavorativa, e lo “scarso rendimento” si configura come uno svolgimento negligente della prestazione lavorativa, imputabile al lavoratore a titolo di colpa.
Seguendo questa impostazione, il licenziamento sarà legittimo ove il datore di lavoro riesca a provare: il «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» (art. 3, legge 604 del 1966); gli indici fondamentali dello scarso rendimento, tra i quali l’attesa, da parte del datore di lavoro, di un risultato analogo a quello richiesto agli altri lavoratori con la stessa qualifica e le stesse mansioni; la condotta inadempiente del lavoratore e la sproporzione particolarmente rilevante tra il risultato del lavoratore e quelli medi degli altri lavoratori (per tutte, Cass. 17 settembre 2009, n. 20050).
Secondo altra opinione, invece, lo scarso rendimento può anche prescindere dalla colpevolezza del lavoratore: per “rendimento” dovrebbe infatti intendersi il “risultato utile” dell’attività posta in essere dal lavoratore affinché la sua prestazione sia funzionale alla redditività dell’attività d’impresa.
In tale prospettiva si ha quindi “scarso rendimento” ogniqualvolta la prestazione resa dal dipendente, non essendo sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro, si rivela idonea a giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro.
Terreno fertile per l’applicazione di questa interpretazione si è rivelata l’ipotesi – purtroppo tutt’altro che infrequente – della prestazione lavorativa resa con discontinuità a causa delle numerose assenze del lavoratore.
E così, secondo una parte della giurisprudenza, tali reiterate assenze possono integrare lo scarso rendimento allorché le stesse, pur se incolpevoli, rendano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale e sulle esigenze organizzative e funzionali dell’impresa (Cass. 4 settembre 2014, n. 18678; Trib. Milano, 19 gennaio 2015, n. 1341; Trib. Milano, 19 settembre 2015, n. 26212).
La decisione del Tribunale di Pisa
La vicenda in commento si colloca a pieno titolo tra le ipotesi “soggettive” di scarso rendimento, delle quali pare invero costituire un esempio scolastico.
Già Cass. 1° dicembre 2010, n. 24361 aveva infatti ritenuto che il datore di lavoro può dimostrare l’inadempimento del dipendente (anche) mediante la comparazione tra i risultati dallo stesso dipendente con il rendimento medio dei suoi colleghi, precisando altresì che, affinché possa ritenersi integrato lo scarso rendimento, è necessario che tra i risultati del lavoratore e quelli degli altri vi sia una “enorme sproporzione”, cioè uno scarto significativo, che renda oggettivamente apprezzabile la mancanza di diligenza. Dunque per scarso rendimento si deve intendere la «evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente ed a lui imputabile in conseguenza dell’enorme sproporzione fra gli obbiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione» (nello stesso senso, Cass. 22 gennaio 2009, n. 1632; Cass. 22 febbraio 2006, n. 3876).
Nel caso in commento, lo scostamento del lavoratore rispetto ai tempi medi di lavorazione è stato esaurientemente provato dalla società convenuta.
Inoltre, nel corso dell’istruttoria è altresì emerso «che tra una lavorazione e l’altra il ricorrente, anziché impiegare un tempo standard che si aggira incirca un minuto impiegava circa 10/15 minuti»; ed un teste «ha riferito che il ricorrente in una giornata lavorativa di sette ore ne lavorava cinque, ed ha aggiunto di averlo dovuto sostituire spesso per assicurare il rispetto dei tempi di lavorazione».
Il ricorrente, invece, non ha avanzato alcuna denuncia circa una eventuale «irrealizzabilità» o «eccessiva gravosità» di tali compiti, ed ha semplicemente concentrato le proprie difese sull’«aver sempre lavorato nel miglior modo possibile».
In tale impostazione difensiva riecheggia evidentemente una concezione dell’obbligazione lavorativa come mera obbligazione di mezzi, cui il risultato della prestazione resa dovrebbe restare del tutto estraneo.
Eppure, pur senza addentrarci nella validità della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, è indiscutibile che nel rapporto di lavoro la diligenza è pur sempre il metro con cui valutare l’adempimento della prestazione dedotta in contratto: il dipendente, infatti, non si impegna ad offrire sic et simpliciter le proprie energie lavorative, ma si impegna ad eseguire i compiti affidatigli usando «la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta [e] dall’interesse dell’impresa» (art. 2104 cod. civ.).
È evidente, infatti, che l’interesse dell’impresa non può che essere quello ad una prestazione diligentemente svolta, mentre il protrarsi di un negligente inadempimento mina la fiducia del datore nel futuro adempimento, giungendo anche all’estremo di non consentire un’ulteriore prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro (art. 2119 cod. civ.).
Ed è proprio in applicazione di tali princìpi che il Tribunale pisano rigetta l’impugnativa proposta del lavoratore e conferma il licenziamento per giusta causa: «in conclusione, risultando provato, quantomeno allo stato della presente procedura sommaria, lo scarso rendimento del ricorrente, protratto e significativo, e dunque il venir meno della fiducia del datore di lavoro in merito all’esatto adempimento per il futuro, la giusta causa del licenziamento comminato al ricorrente risulta dimostrata e perfettamente idonea a giustificare il recesso datoriale.
In tal senso si rammenta, tra l’altro, quanto affermato da Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza del 4 settembre 2014, n. 18678, secondo cui è perfettamente legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione».
Considerazioni conclusive
Il Tribunale sottolinea infatti che gli addebiti mossi al lavoratore (e rivelatisi fondati) sarebbero “bastati” «da soli a confortare la giusta causa di licenziamento» a prescindere, cioè, da una loro complessiva valutazione in termini di poor performance.
Il richiamo effettuato alla giurisprudenza di legittimità in tema di scarso rendimento, ed in particolare alla pronuncia n. 18678 del 2014 che ne ha accolto la nozione più lata e comprensiva anche di fattispecie “oggettive”, appare quindi apprezzabile, in quanto indice di un atteggiamento sensibile anche all’interesse dell’impresa.
Come rilevato correttamente in dottrina, infatti, con la pronunzia citata della Suprema Corte «la tradizionale tendenza a vedere lo scarso rendimento solo in una prospettiva disciplinare lascia il posto a una più equilibrata e composita analisi delle caratteristiche della prestazione, perché essa possa essere esaminata in modo più articolato e riguardata anche sotto il profilo della sua inadeguatezza al raggiungimento degli scopi dell’impresa»