nozione
Il periodo di comporto è quel periodo massimo di non lavoro dovuto a malattia o infortunio, nel quale il datore di lavoro non può procedere al licenziamento. Trascorso tale periodo, è possibile recedere dal contratto.
La disposizione è contenuta all’interno dell’art. 2110 del codice civile. In particolare, il comma 2, stabilisce che “nei casi indicati nel comma precedente (infortunio e malattia), l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.”.
Nella pratica, il periodo massimo di malattia o infortunio è disciplinato dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio previsto dal codice civile e la relativa durata
il diritto di recede da parte del datore di lavoro
Il datore di lavoro ha il diritto di recedere dal contratto di lavoro se il lavoratore ha superato il periodo di comporto previsto dalla legge.
La durata massima del periodo di malattia o infortunio è stabilita dai contratti collettivi nazionali che definiscono le modalità di attuazione del principio previsto dal codice civile.
Prima di procedere con la risoluzione del contratto, il datore di lavoro deve effettuare alcune verifiche.
In primo luogo, deve verificare che il lavoratore non abbia avuto malattie escluse dal periodo di comporto, come previsto dal CCNL.
Inoltre, il datore di lavoro deve escludere le malattie o gli infortuni causati da violazioni delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro. Infine, è importante conoscere le modalità per il calcolo del periodo di comporto.
Licenziamento per il superamento del periodo di comporto
In base alle regole dettate dall’art. 2 della l. n. 604/1966 (modificato dall’art. 2 della l. n. 108 del 1990) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore – il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifici rilievi – ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi illegittimo.
La vicenda pugliese
La Corte d’appello di Bari, riformando la pronuncia di primo grado, ha dichiarato nullo sia il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore dalla società, nonché inefficace anche il licenziamento disposto successivamente dalla medesima società per superamento del periodo di comporto per sommatoria.
Con riferimento al licenziamento per superamento del periodo di comporto (ovvero il periodo in cui il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto in caso di malattia), la Corte d’appello ha ritenuto generiche e indeterminate le motivazioni del licenziamento non essendo state indicate le giornate di assenza, né tale informazione è stata fornita al lavoratore a seguito di sua richiesta.
La decisione della Cassazione
Per quanto riguarda il licenziamento per superamento del periodo di comporto, la Suprema Corte osserva che la Corte d’appello di Bari ha aderito alla giurisprudenza secondo cui
«qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi illegittimo»
«a fronte della richiesta del lavoratore di conoscere i periodi di malattia, il datore di lavoro deve provvedere ad indicare i motivi del recesso ex art. 2, comma 2, l. n. 604 del 1966 (modificato dall’art. 2 l. n. 108 del 1990), in quanto le regole ivi previste sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso si applicano anche al suddetto licenziamento, non essendo dettata nessuna norma speciale al riguardo dall’art. 2110 cod. civ.».
Periodo di comporto e ferie arretrate
Affrontiamo qui il problema della possibile sospensione del periodo di comporto a seguito della richiesta del dipendente di fruire un periodo di ferie arretrate (ove formulata in maniera chiara e tempestiva), al preciso scopo di evitare il proprio licenziamento ai sensi dell’articolo 2110, co. 2, del codice civile.
la vicenda marchigiana
una lavoratrice, in vista della scadenza del suo periodo di comporto, fissata al 28 marzo 2015, con missiva del 17 marzo, poi ribadita il 23 marzo 2015, tramite il proprio legale di fiducia, aveva chiesto di fruire innanzitutto delle ferie già maturate (pari a 197 ore di lavoro) e non ancora godute; anticipando altresì l’intenzione di richiedere, al termine della fruizione di tale “pacchetto” di giorni di ferie, anche l’aspettativa non retribuita (nel caso di perdurante inabilità al lavoro e, quindi, di impossibilità di riprendere servizio).
La società, in una lettera del 25 marzo 2015 (riscontrando la richiesta ricevuta il 18 marzo), negava la fruizione delle ferie, comunicando però di accettare la richiesta di aspettativa non retribuita, dal 28 marzo al 25 luglio 2015.
Nella propria risposta, la società datrice di lavoro precisava quanto segue: “Le ferie maturate e non ancora godute le verranno pagate al termine del periodo di aspettativa con la cessazione del rapporto di lavoro, qualora, terminato il periodo di 120 giorni, non fosse ancora in grado di riprendere l’attività lavorativa”.
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata il 20 aprile 2020, ritenendo immotivato il rifiuto opposto dalla società alla preventiva fruizione delle ferie arretrate, confermava la decisione del Tribunale di Fermo il quale aveva già ritenuto illegittimo il licenziamento della signora, in quanto intimato prima dell’effettivo superamento del periodo di comporto.
Contro tale decisione la società ricorre avanti alla Suprema Corte, asserendo che la lavoratrice aveva fruito di 120 giorni di aspettativa non retribuita (come da CCNL), prolungando così il periodo di comporto, dovendosi ritenere legittima la propria decisione di non concedere alla dipendente di mutare il titolo dell’assenza da malattia a ferie (maturate e non godute).
La decisione della Corte di Cassazione
La Cassazione, dichiarando inammissibili i motivi di ricorso, ha subito precisato che il lavoratore assente per malattia ha la facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute al fine di sospendere il decorso del comporto, non sussistendo un’incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda un obbligo del datore di accettare la richiesta in questione, ove ricorrano ragioni ostative di natura organizzativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, è tuttavia necessario che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive (e, proprio in relazione a tale onere probatorio, posto interamente a carico del datore, di norma arrivano le brutte notizie).
In caso di richiesta da parte del lavoratore di convertire un’assenza per malattia in ferie, spetta al datore di lavoro, nel decidere quando concedere le ferie, considerare attentamente la posizione del lavoratore, il quale potrebbe rischiare di perdere il posto di lavoro al termine del periodo di comporto. Tuttavia, è importante sottolineare che non esiste un diritto assoluto del dipendente in merito a tale richiesta.
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha confermato l’illegittimità del licenziamento e ha considerato i principi relativi alle ferie maturate e non godute richieste dalla signora prima della scadenza del periodo di comporto.
La Suprema Corte ha confermato le decisioni prese in precedenza e ha respinto il ricorso presentato dalla società. Inoltre, la società è stata condannata a pagare le spese legali a favore della controparte in questo processo di legittimità.
le fonti normative
Art. 32 della Costituzione: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Art. 2110 del Codice civile: 1. In caso d’infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità. 2. Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’ art. 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità.
3. Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di servizio.
R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, art. 6, comma 2
Nei casi d’interruzione di servizio dovuta ad infortunio o malattia, il principale conserverà il posto al dipendente per il periodo di: a) 3 mesi, se questi abbia un’anzianità di servizio non superiore ai 10 anni; b) 6 mesi, se abbia un’anzianità di servizio di oltre 10 anni.
D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 7
Il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento. I contratti collettivi possono modulare la durata del … periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro.
La contrattazione collettiva regolamenta gli obblighi delle parti in caso di insorgenza della malattia e, per quanto qui maggiormente interessa, il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro (comporto).
Comporto secco e per sommatoria
Secondo quanto prevedono i contratti collettivi, il periodo di conservazione del posto di lavoro si distingue in:
– “comporto secco”, ossia un unico ed ininterrotto periodo di malattia;
– “comporto per sommatoria”, caratterizzato da più eventi di malattia separati e reiterati che, sommati tra di loro, portano al superamento del limite massimo stabilito per il comporto.
Se il contratto collettivo prevede soltanto il comporto secco e tale periodo viene superato sommando singoli periodi di minore durata si ritiene che si debba fare riferimento alla durata del contratto collettivo di riferimento; così, ad esempio se il contratto collettivo ha durata triennale per verificare il superamento della soglia di garanzia occorrerà prendere in considerazione tutte le malattie cadenti nel triennio.
Calcolo del periodo di comporto
I contratti collettivi prevedono comunemente che il periodo di conservazione del posto di lavoro debba essere riferito all’“anno” di calendario” o all’“anno solare”.
Se non diversamente specificato dal contratto stesso, per “anno di calendario” (o anche “anno civile”) deve intendersi il periodo intercorrente tra il 1° gennaio ed il 31 dicembre di ogni anno, mentre per “anno solare” si intendono i 365 giorni decorrenti dal primo episodio morboso, dall’inizio della malattia, se continuativa, ovvero, a ritroso, dalla data del licenziamento
Nel caso specifico del CCNL del settore Terziario (ex Commercio) il periodo di conservazione del posto di lavoro pari a 180 giorni, da calcolare in un anno solare decorrente dal primo episodio morboso, deve ritenersi riferito sia al comporto secco che a quello per sommatoria
Nel conteggio vanno inclusi i giorni festivi e le domeniche che cadono nel periodo di malattia certificato dal medico
in caso di certificati in sequenza le festività vanno conteggiate qualora siano comprese tra i due certificati, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso
Secondo una sentenza della Corte di Cassazione, nel caso in cui il periodo di comporto è indicato in mesi, non si può utilizzare il mese convenzionale di 30 giorni ma occorre calcolare le giornate effettive dei mesi di riferimento e, all’occorrenza, si dovrà utilizzare il divisore 30,42 sul numero complessivo dei giorni di assenza, aggiungendo una ulteriore giornata se nel periodo vi è un anno bisestile.
Comunicazione
Molti contratti collettivi prevedono la possibilità per il lavoratore di preservare il posto di lavoro, anche dopo la scadenza del periodo di comporto, chiedendo un periodo di aspettativa, normalmente non retribuita.
In via generale, il datore di lavoro, in assenza di preciso onere previsto dalla contrattazione collettiva, non è obbligato a comunicare al dipendente l’imminente scadenza del periodo di comporto, non costituendo nemmeno violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede non aver risposto alle richieste del lavoratore di essere informato sullo stato del proprio periodo di comporto.
Anche nel caso in cui il datore di lavoro, fornendo informazioni errate sul numero dei giorni di malattia già registrati, induca il dipendente in errore sulla scadenza del periodo di comporto il conseguente licenziamento deve considerarsi illegittimo
Aspettativa
Di norma, l’aspettativa prevista dal CCNL per evitare il superamento del periodo di comporto deve essere richiesta prima dell’esaurirsi del periodo di comporto e tale possibilità spetta esclusivamente al lavoratore, mentre il datore di lavoro non può imporla
o sollecitarla
A fronte di clausole contrattuali a volte generiche o ambigue (ad esempio laddove viene utilizzata la locuzione “per gravi e comprovate necessità” ovvero il verbo “potere” al fine di usufruire dell’aspettativa) la giurisprudenza di legittimità si è espressa – in linea di massima – per la sussistenza di un diritto soggettivo in capo al lavoratore ad ottenere questo beneficio, ma non mancano, nella giurisprudenza di merito, interpretazioni che riconoscono invece un mero potere discrezionale in capo al datore di lavoro.
Comporto per malattia e infortunio
Sempre ai sensi dell’ art. 2110 c.c., anche in caso di infortunio sul lavoro il datore di lavoro è tenuto a garantire al lavoratore la conservazione del posto di lavoro per il periodo previsto dalla contrattazione collettiva.
Di norma, salva diversa specificazione del CCNL, le assenze per malattia e quelle per infortunio sul lavoro (o malattia professionale) concorrono indifferentemente al calcolo del periodo di comporto, atteso che l’ art. 2110 c.c. ne impone l’assoggettamento alla medesima particolare disciplina
Come previsto dall’ art. 7 del D.Lgs. n. 81/2015, in via di principio il lavoratore a tempo parziale ha diritto allo stesso periodo di comporto previsto per i dipendenti a tempo pieno, anche se la contrattazione collettiva può modularne diversamente la durata in relazione alla diversa articolazione dell’orario di lavoro.
La legge non offre dunque una soluzione esaustiva e così si potrà fare ancora ricorso ad una decisione della Cassazione secondo cui, in assenza di una specifica disciplina contrattuale collettiva, il comporto applicabile ai dipendenti a tempo parziale è quello previsto dalla stessa disciplina per i lavoratori a tempo pieno qualora si tratti di rapporto di lavoro part-time orizzontale, con orario ridotto ma uniforme tutti i giorni; nel caso, invece, di rapporto di part-time verticale è affidato al giudice di merito il compito di ridurre il detto periodo in proporzione alla quantità della prestazione, eventualmente facendo ricorso agli usi e all’equità.
Responsabilità del datore di lavoro
Le assenze per malattia, il cui aggravamento sia determinato dalla violazione imputabile al datore di lavoro degli obblighi di protezione nascenti dell’ art. 2087 c.c., o da specifiche norme atte a concretizzarli, non devono essere computate all’interno del periodo di comporto; pertanto, il licenziamento intimato in violazione di detto criterio dovrà essere considerato illegittimo
L’onere di provare che il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro è avvenuto per causa imputabile al datore di lavoro grava sul lavoratore
Le assenze dovute alle conseguenze di un infortunio sul lavoro non sono utili ai fini del computo del periodo di comporto anche ove l’azienda non dimostri di non esserne stata a conoscenza senza sua colpa; in difetto della prova di tale circostanza non è quindi consentita la riduzione dell’ammontare del risarcimento economico spettante al lavoratore illegittimamente licenziato.
Comunicare la malattia
La contrattazione collettiva pone normalmente un onere in capo al lavoratore di comunicare al datore di lavoro il suo stato di malattia entro un determinato termine, di solito antecedente alla trasmissione della certificazione medica o del numero di protocollo che deve avvenire entro 48 ore (prorogate al giorno successivo in caso di scadenza in un giorno festivo).
Come noto, la certificazione inviata al datore di lavoro deve indicare la prognosi ma non la diagnosi della malattia.
Alcune norme di legge o di contratti collettivi prevedono un periodo di comporto più ampio rispetto a quello previsto in via ordinaria (ad esempio per malattie oncologiche o tubercolosi). In questo caso la Cassazione ha ritenuto che il lavoratore ha l’onere di dare notizia anche della natura della malattia da cui è affetto prima che il datore di lavoro eserciti la sua facoltà di recedere dal contratto alla scadenza del comporto ordinario
Tempestività del licenziamento
Superato il periodo di comporto il datore di lavoro può liberamente recedere dal rapporto di lavoro, non essendo necessario che venga fornita prova in ordine al giustificato motivo oggettivo, all’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa e all’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. 16/6/2
In giurisprudenza si è posto il problema se il recesso debba essere intimato subito dopo il superamento del comporto ovvero se possa essere comunicato anche successivamente.
Secondo un primo orientamento, il licenziamento deve essere tempestivo poiché, in caso contrario, l’inerzia prolungata del datore di lavoro equivarrebbe ad una rinuncia ad esercitare la facoltà di recesso dal rapporto
Secondo un altro (prevalente) indirizzo, il datore di lavoro può certo recedere dal rapporto non appena terminato il periodo di comporto ma ha anche la facoltà di attendere la ripresa del servizio per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo dell’azienda; in questo contesto l’eventuale prolungata inerzia datoriale, da valutare a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e può ingenerare un corrispondente affidamento da parte del dipendente
Disabilità
Il licenziamento del lavoratore invalido per superamento del periodo di comporto è da ritenersi legittimo, salvo che le assenze per malattia siano dovute a responsabilità del datore di lavoro per avergli assegnato mansioni incompatibili con la disabilità
Su questa problematica si segnala comunque il contrasto tutt’ora sussistente nella giurisprudenza di merito.
Così, secondo la Corte di Appello di Napoli, deve considerarsi nullo il licenziamento irrogato ad un lavoratore affetto da sclerosi multipla degenerativa per superamento del periodo massimo di malattia in quanto la speciale condizione di handicap grave da cui è affetto avrebbe dovuto impedire di applicare pedissequamente la disciplina del CCNL sul periodo di comporto e imporre, invece, di adottare accorgimenti ragionevoli che tenessero conto della natura irreversibile della malattia, ad esempio considerando la sua residua capacità lavorativa
Di contro, secondo un opposto orientamento, non è discriminatorio includere nel computo del comporto i giorni di assenza per malattia legata all’handicap di una lavoratrice (Trib. lav. Vicenza 26/4/2022, n. 181; nello stesso senso si veda anche Trib. lav. Bologna 19/5/2022, n. 230).
Da ultimo è intervenuta la Cassazione per la quale deve ritenersi nullo, in quanto discriminatorio, il licenziamento di un lavoratore portatore di handicap che aveva superato il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo senza che vi fosse una differenziazione tra i dipendenti “normali” e quelli disabili, invitando altresì le parti sociali a prevedere per il futuro una differenziazione nel calcolo del periodo di garanzia
Contenuto della comunicazione del licenziamento
In giurisprudenza si è spesso posto il problema se il datore di lavoro sia tenuto, o meno, a specificare i singoli giorni di assenza per malattia nella lettera con la quale comunica il recesso dal rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto.
Si rintracciano due diversi orientamenti:
– per un primo orientamento, è necessario indicare i singoli giorni di assenza per malattia, non essendo sufficiente riportare soltanto il numero complessivo delle assenze
– per un secondo (maggioritario) orientamento, è sufficiente che il datore di lavoro indichi il numero totale delle assenze
In quest’ultimo caso, qualora nella comunicazione di licenziamento non siano dettagliate le assenze in base alle quali si reputa superato il periodo di comporto, il lavoratore ha comunque la facoltà di chiedere al datore di lavoro di fornire specificazioni a riguardo, con la conseguenza che nel caso di non ottemperanza il licenziamento dovrà considerarsi illegittimo
Pur non essendo tenuto ad una indicazione specifica dei giorni di assenza, ove invece il datore di lavoro lo faccia questa diventa immutabile in giudizio, a garanzia del contraddittorio.
Effetti del licenziamento intimato prima della scadenza del comporto
Dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno così composto un contrasto insorto nella Sezione lavoro, può dirsi ormai affermato il principio secondo cui licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c.
Alla nullità del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal contratto collettivo consegue dunque la sua reintegrazione ed il risarcimento del danno.
Illegittimo il licenziamento del portatore di handicap se supera il comporto
Nota a Corte di Cassazione, Sez. L Civile, Ordinanza 21 dicembre 2023, n. 35747
Disabled female student in wheelchair reading a book, disability, bookshelf and university library interior on background. Handicapped woman studying in college, paralyzed people get knowledge
di Marco Proietti*
10 Gennaio 2024
Il portatore di handicap o comunque con disabilità grave, tale da determinare continue assenze dal lavoro, anche frazionate, può essere legittimamente licenziato per superamento del periodo di comporto solo se il datore di lavoro dimostra di aver adottato tutta una serie di misure e valutazioni adatte a prevenire forme di “discriminazione indiretta” che risulta essere connessa proprio al particolare stato patologico in cui versa il dipendente, soprattutto se tale condizione fisica è nota all’azienda.
Questa è la posizione espressa dalla sentenza della Cassazione 21 dicembre 2023, n. 35747 che si inserisce in un più ampio ragionamento conseguente al recepimento in Italia della Direttiva UE 2000/78 avvenuto con il D.lgs. 216/2003 a proposito dell’attenzione che deve essere riservata nei confronti di quei lavoratori i quali, stante le condizioni fisiche particolarmente debilitanti e uno stato patologico ingravescente, finiscono per essere predisposti a maggiori assenze dal lavoro per malattia e per la sottoposizione a lunghi periodi di cure.
In questo contesto, dunque, si ritiene che il calcolo del periodo di comporto non possa essere identico per tutti i lavoratori, laddove il portatore di handicap (o con disabilità) è già destinatario di una norma con effetto cogente, per la quale il datore di lavoro deve adottare una serie di misure preventive e, in sintesi, riconoscere un comporto prolungato laddove previsto dai contratti collettivi o comunque evitare l’assegnazione a funzioni e mansioni che possano compromettere ulteriormente la sua salute.
La discriminazione indiretta nella giurisprudenza
La questione era stata già presa in consegna dalla giurisprudenza di legittimità che, pochi mesi prima della decisione che abbiamo appena segnalato, aveva ritenuto che il “rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata” così si legge in Cass. 9095/2023).
Il punto focale, dunque, è rappresentato dal concetto di discriminazione indiretta che può derivare a danno del disabile, nel momento in cui il datore di lavoro non tenga conto della particolare condizione fisica in cui lo stesso versa.
Indizio inequivocabile di tale discriminazione è considerato, per l’appunto, il calcolo del comporto ed il possibile licenziamento del dipendente assente da tempo.
A questo punto, partendo da un dato assodato, ovvero che la nozione di handicap o di disabilità non coincide perfettamente con quella di malattia, è pur vero che la natura e la gravità di patologie plurime, spesso croniche, e ingravescenti nel tempo, possano determinare una difficoltà oggettiva nell’esercizio delle attività lavorative di cui il datore di lavoro deve tenere conto; le assenze per malattia, in questo senso, devono essere distinte se determinate o meno dall’invalidità di cui il lavoratore è portatore e che comporta per questi, evidentemente, un ostacolo alla normale vita di relazione e sociale oltre che a quella interna all’azienda.
Ecco perché il D.lgs. 216/2003 ha introdotto nel nostro ordinamento il concetto di discriminazione indiretta poi così recepita in giurisprudenza: “In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio” (Cass. 9095/2023).
In breve, applicare l’ordinario periodo di comporto al portatore di handicap o comunque disabile, integra gli estremi di una discriminazione indiretta e, per l’effetto, il licenziamento intimato è da ritenersi illegittimo, con diritto del lavoratore a vedersi reintegrato in servizio.
La necessita’ di accomodamenti ragionevoli
Per altro verso è opportuno rilevare che il datore di lavoro, anche se non pienamente a conoscenza delle ragioni dell’assenza del dipendente (ovvero se le stesse derivino direttamente dallo stato di handicap o disabilità, oppure se si tratta di altro genere di malattia) pur nella libertà di iniziativa economica e privata e quindi pur nel rispetto di quei principi che gli consentono la libera organizzazione dell’azienda, deve – in base alla diligenza e buona fede – individuare “ soluzioni ragionevoli ” che consentano la neutralizzazione o il ridimensionamento di situazioni che possano aggravare le condizioni fisiche del dipendente.
La legge in questi casi parla, infatti, di “accomodamenti ragionevoli” riferendosi con tali termini a quegli interventi che il datore, comunque nel bilanciamento degli interessi in gioco, e quindi anche guardando alla legittima condotta di contrasto all’eccessiva morbilità, deve comunque porre in essere per la tutela del disabile. Si legge in motivazione alla Cassazione richiamata che “…questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato […] Tuttavia, tale legittima finalità [ndr. il contrasto all’eccessiva morbilità] deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati […]”.
Dunque il rischio di non tenere conto dell’eccessiva morbilità del portato di handicap o disabile, resta tutta a carico del datore di lavoro che può contrastare il fenomeno solo con strumenti adeguati, diversi da quelli approntati per gli altri dipendenti: in caso contrario si avrebbe, appunto, discriminazione indiretta.
In tale contesto, per concludere, il licenziamento deve rappresentare l’ultimo stadio all’interno di un percorso ove il lavoratore è stato messo in condizione di rientrare in servizio e di fornire la propria prestazione e nel rispetto di un comporto lungo se previsto dal contratto collettivo applicato.
L’onere della prova
Quanto all’onere della prova, il licenziamento segue le regole consolidate in giurisprudenza ma con alcune precisazioni dettate dalla particolarità del caso.
E così nel giudizio di valutazione circa la natura discriminatoria, o da fatto illecito, del licenziamento per superamento del comporto del portatore di handicap (o del disabile) vige un regime probatorio semplificato, ove risulta oggettiva la discriminazione indiretta per il solo fatto che sia stato intimato il recesso dal rapporto di lavoro; il lavoratore deve limitarsi a dimostrare i fatti da cui possa derivare un trattamento deteriore subito, rispetto agli altri dipendenti (non in analoghe condizioni fisiche), mentre il datore di lavoro dovrà fornire la prova opposta ovvero di aver garantito tutti quegli “ accomodamenti ” di cui si diceva poco sopra, e di non aver simulato – ecco il fatto illecito che può nascondersi – un licenziamento per superamento del comporto al fine, invece, di licenziare un dipendente non più gradito o semplicemente in quanto disabile.
La discriminazione opera in modo oggettivo dunque il datore di lavoro deve fornire delle prove concrete sulla propria condotta, in quanto l’elemento soggettivo (dunque dolo o colpa che sia) possono unicamente aggravare la sua posizione.
In conclusione, il licenziamento del portatore di handicap o disabile, per superamento del comporto, sarà considerato illegittimo tutte le volte in cui non si potrà escludere – con ragionevole certezza – che vi sia stata una forma di discriminazione indiretta o che il datore di lavoro non si sia adoperato per eliminare quegli ostacoli che impediscono una vera parità di trattamento tra tutti i dipendenti.
Prassi dei tribunali e indicazioni operative
Nella prassi dei tribunali sono emerse diverse situazioni che possono, in qualche modo, aiutare il datore di lavoro a prevenire il formarsi delle condizioni per la discriminazione indiretta.
Una parte della casistica si è concentrata sulle vicende relative alla modalità di gestione del comporto, ovvero all’opportunità che il datore di lavoro informi prontamente i lavoratori del periodo di comporto residuo, dell’imminenza di un termine superato il quale si potrebbe procedere al licenziamento e delle clausole contrattuali collettive applicate, ma anche di accordi aziendali, che regolamentano la malattia: questo consente al lavoratore di essere edotto sui propri diritti e su quanto stia rischiando, anche senza una propria diretta volontà.
Parimenti, il datore di lavoro può ritenere valido concordare con il lavoratore un periodo di sospensione dal servizio concordata con il solo scopo di preservare il rapporto di lavoro, nei limiti comunque consentiti dalla legge.
Un ulteriore strumento che emerge dalla prassi dei tribunali è quello relativo all’utilizzo della contrattazione aziendale per la modifica, migliorativa, della disciplina sulla malattia con il riconoscimento di un comporto più lungo per i lavoratori portatori di handicap (o disabilità) o, più semplicemente, con il riconoscimento di un welfare aziendale ad hoc per questo tipo di circostanze. L’apertura di un confronto sindacale, o comunque con la popolazione aziendale, consente di arrivare all’applicazione di misure per il superamento della disparità di trattamento.
Cosa non fare per evitare la discriminazione indiretta?
Certamente adottare una serie di misure nei confronti del lavoratore disabile come trasferimenti di sede, riduzione non concordata delle mansioni o l’assegnazione a mansioni usuranti, rappresentano un chiaro esempio di ciò che non andrebbe fatto per evitare di trovarsi in una situazione di discriminazione indiretta. Teniamo a mente che ogni condotta datoriale che in qualunque modo, appunto anche indiretto, è destinata ad incidere sulla salute del lavoratore, può essere validamente valutata come illegittima e perfino prodromica a quella malattia da cui è disceso il supermento del comporto.
La rigida applicazione del periodo di comporto configura una discriminazione indiretta del lavoratore disabile
ProductNorme&Tributi Plus Diritto|14 dicembre 2023|di . Giuseppe Sant’Elia *
La recente sentenza n. 3716/2023 della Corte d’Appello di Roma, in sintonia con la direzione impressa dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 9095/2023, emerge come un momento decisivo nella giurisprudenza del lavoro, affrontando con determinazione e chiarezza la problematica della discriminazione indiretta a carico dei lavoratori disabili e indagando sulle ripercussioni in termini di uguaglianza e non discriminazione dell’applicazione omogenea del periodo di comporto. Con rigore analitico e sensibilità ai principi di equità, la sentenza svela le complesse dinamiche che si celano dietro a una prassi apparentemente neutrale, offrendo un contributo essenziale alla comprensione e al miglioramento delle relazioni di lavoro nel nostro ordinamento.
Fatti di causa e contesto giuridico
L’analisi condotta dalla sentenza tocca un tema di straordinaria rilevanza nel diritto del lavoro: l’attuazione del periodo di comporto nei confronti dei lavoratori disabili e le sue implicazioni in termini di discriminazione indiretta.
La decisione ha come fulcro la vicenda di un lavoratore disabile, con grado di invalidità del 67%, il quale aveva subito il licenziamento per superamento del periodo di comporto, dopo aver accumulato 366 giorni di assenza in un periodo di 36 mesi, ossia oltre il limite previsto dal CCNL di settore.
Nell’ambito del suo ricorso all’autorità giudiziaria, il lavoratore ha sollevato un argomento cruciale, evidenziando come l’applicazione rigida del periodo di comporto non considerasse adeguatamente le peculiarità inerenti alla sua specifica condizione di disabilità. La disposizione contrattuale collettiva, pur presentandosi in apparenza neutra, avrebbe, in realtà, ingenerato un trattamento ingiustamente penalizzante per il lavoratore disabile, rivelando una sottostante dinamica discriminatoria.
In primo grado, il Tribunale di Roma, allineandosi alle difese del datore di lavoro, aveva respinto la domanda del lavoratore, ritenendo che non vi fosse discriminazione indiretta. La sua decisione si basava sul presupposto che il lavoratore non avesse comunicato la propria disabilità, impedendo così al datore di lavoro di adottare misure protettive specifiche, e che l’assegnazione del lavoratore a mansioni compatibili con la sua condizione di salute escludesse rischi aggiuntivi di assenze legate alla disabilità. La Corte d’Appello di Roma è stata pertanto adita per riesaminare il caso, prendendo in considerazione la complessa relazione tra i diritti dei lavoratori disabili e le necessità organizzative dei datori di lavoro, richiedendo un’attenta valutazione delle problematiche coinvolte.
Decisione della Corte d’Appello e suoi fondamenti
La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha valutato che il licenziamento del lavoratore fosse illegittimo dichiarandone quindi la nullità. La decisione si fonda sull’interpretazione che le assenze del lavoratore, culminate nel superamento del periodo di comporto, fossero intrinsecamente legate alla sua specifica condizione di disabilità. La Corte, dichiarando illegittimo il licenziamento e quindi annullandolo, ha individuato nell’applicazione generalizzata del periodo di comporto una violazione dei principi di non discriminazione. Questo giudizio si basa sulle normative contenute nell’articolo 2 del D.Lgs. 216/2003 e nella direttiva 2000/78/CE, che individuano la necessità di considerare le esigenze particolari dei lavoratori disabili.
L’esame giurisprudenziale, focalizzato sulla discriminazione indiretta, si è esteso a una valutazione critica delle disposizioni, dei criteri e delle prassi che, pur sembrando neutrali, possono effettivamente creare uno svantaggio ingiusto per i lavoratori con disabilità.
In particolare, è stata sottolineata la necessità di un’analisi dettagliata delle interazioni tra l’articolo 2 del D.Lgs. 216/2003, la direttiva comunitaria n. 2000/78 CE e le disposizioni contrattuali applicate. Un’attenzione specifica è stata dedicata anche all’articolo 2110 del Codice Civile, che disciplina il recesso dal contratto di lavoro in caso di prolungate assenze, per valutarne l’applicabilità e l’adeguatezza in situazioni di assenze correlate a condizioni di disabilità.
Confronto con precedenti giurisprudenziali
La sentenza della Corte d’Appello di Roma rappresenta un’importante conferma e prosecuzione dell’orientamento giurisprudenziale delineato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 9095/2023, alla quale viene attribuita una evidente finalità nomofilattica.
La Corte d’Appello si allinea all’orientamento stabilito dalla Suprema Corte, secondo cui la rigida applicazione del periodo di comporto ai lavoratori disabili configura una forma di discriminazione indiretta. Questa posizione si basa sul riconoscimento che i lavoratori con disabilità sono soggetti a una maggiore propensione ad assenze involontarie, direttamente connesse alla loro specifica condizione di salute.
La Corte di Cassazione, nell’orientamento espresso, ha enfatizzato la necessità d’interpretare tali assenze come intrinsecamente legate alla condizione d’invalidità del lavoratore. Di conseguenza, in mancanza di ulteriori accertamenti, il licenziamento basato sul superamento del periodo di comporto va ritenuto nullo, in quanto in contrasto con i principi di equità e non discriminazione sanciti dalla normativa costituzionale e dalle direttive dell’Unione Europea.
La decisione della Corte d’Appello di Roma non solo ribadisce ma rafforza tale interpretazione, riconoscendo la necessità di un approccio giuridico che tenga in debita considerazione le peculiarità dei lavoratori disabili e che sia conforme sia ai principi nazionali che a quelli europei.
Implicazioni della sentenza
La pronuncia della Corte d’Appello di Roma segna quindi un’evoluzione critica nelle dinamiche lavorative in Italia, incidendo direttamente sulle pratiche dei datori di lavoro. Questo giudizio impone una riflessione e una rielaborazione delle normative interne aziendali, in particolare quelle che regolano il periodo di comporto, sollecitando un rinnovato approccio alle esigenze dei lavoratori disabili.
La sentenza esorta i datori di lavoro a una riconsiderazione accurata e responsabile delle loro modalità di gestione delle assenze per malattia, evidenziando l’imprescindibile necessità di un trattamento differenziato per i lavoratori affetti da disabilità. L’applicazione indiscriminata di regolamenti generali può, infatti, concludersi in effetti discriminatori, anche non intenzionali, che colpiscono specificamente le categorie protette come i lavoratori disabili.
Di conseguenza, la sentenza invita i datori di lavoro ad adottare pratiche lavorative inclusive, rispettose delle specificità dei lavoratori disabili, evitando condotte che potrebbero essere interpretate come discriminatorie. L’effetto è quello di incoraggiare un ambiente di lavoro che valorizzi la diversità e promuova l’uguaglianza e la non discriminazione.
I datori di lavoro, pertanto, sono chiamati ad essere protagonisti attivi di questo cambiamento, attuando politiche che non solo rispettino le normative, ma che contribuiscano effettivamente alla creazione di un ambiente lavorativo equo e rispettoso dei diritti di tutti. La sentenza della Corte d’Appello di Roma, quindi, non solleva solo questioni legali, ma anche etiche e sociali, sottolineando la responsabilità dei datori di lavoro nel garantire che le esigenze dei lavoratori disabili siano pienamente riconosciute e integrate nelle relazioni lavorative.
Conclusioni
La sentenza n. 3716/2023 della Corte d’Appello di Roma rappresenta quindi un passo significativo nella giurisprudenza del lavoro, confermando un quadro giuridico che si sta sempre più delineando riguardo ai diritti dei lavoratori disabili. Questa decisione, allineandosi con le indicazioni della Corte di Cassazione e con i principi europei, sottolinea l’importanza e l’urgenza di un approccio attento e consapevole alle esigenze dei lavoratori disabili nelle relazioni lavorative.
La pronuncia della Corte d’Appello di Roma si rivela decisiva nell’orientare sia gli operatori del diritto che i datori di lavoro verso una considerazione più accurata e specifica dei diritti dei lavoratori disabili. La sentenza, inoltre, stimola il dibattito legislativo e contrattuale, ponendosi come un punto di riferimento essenziale per futuri sviluppi in questa materia.
La sentenza non solo rafforza un orientamento giuridico sempre più affermato, ma promuove una maggiore consapevolezza e responsabilità nei confronti dei lavoratori disabili, consolidando un approccio di lavoro più giusto ed equo e in linea con la normativa europea.
*A cura dell’Avv. Marco Proietti – Foro di Roma
PER SAPERNE DI PIÙ
LAVORO E PREVIDENZA SOCIALE
È discriminatorio il licenziamento del disabile per superamento del comporto
Di Matteo Luccisano
Avvocato e Dottorando di ricerca in diritto del lavoro presso la Fondazione M. Biagi – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Pubblicato il 12/01/2024
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Licenziamento
È illegittima l’applicazione di norme di un contratto collettivo che non prevedano distinzioni in relazione alla durata del periodo di comporto tra lavoratori non disabili e disabili. L’eventuale licenziamento per superamento del comporto di un lavoratore disabile, applicato senza differenziazione da quelli previsto per i lavoratori non disabili, rappresenta una condotta discriminatoria ed è, pertanto, nullo (
Tribunale di Rovereto, sentenza 30 novembre 2023, n. 44).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Trib. Lecco 9/2/2023
Cass. 31/3/2023, n. 9295
App. Milano 9/12/2022, n. 1128
Trib. Milano, 22/5/2022
Trib. Milano 12/6/2019
Difformi
Trib. Bologna 19/5/2022, n. 230
Trib. Vicenza 27/4/2022, n. 181
App. Palermo 14/2/2022, n. 111
Trib. Venezia 7/12/2021, n. 6273
Il Tribunale di Rovereto ha pubblicato una sentenza che è sì interessante, ma che – col medesimo effetto di quegli studenti che a scuola erano “bravi, ma potevano impegnarsi maggiormente” – avrebbe potuto spingersi ad affrontare tematiche di rilievo, suscitando ancora più attenzione. Infatti, nel sancire un principio sacrosanto, quello che vuole impedire la medesima applicazione di norme collettive a situazioni diverse, nel pieno spirito costituzionale dell’eguaglianza sostanziale (
art. 3, comma 2, Cost.), il giudice tridentino, mentre da un lato si spinge quasi ad autoassegnarsi un potere di intervento piuttosto ampio, dall’altro sembra accontentarsi, evitando di trattare la delicata questione posta dalle parti in materia di diritto sindacale. E tutto ciò con una motivazione non scevra del tutto da dubbi interpretativi e pratici.
Ripercorriamo la decisione in commento, lasciando alla fine brevi commenti sul ragionamento del Tribunale.
Il caso trae origine da un ricorso esperito da un lavoratore, che svolgeva mansioni di assemblaggio e movimentazione di pezzi metallici pesanti con l’ausilio di macchinari, volto all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento irrogato per superamento del periodo di comporto. Le ragioni del ricorrente possono ridursi essenzialmente in tre argomenti principali.
Il primo attiene alla supposta discriminatorietà – e, conseguentemente, nullità – del recesso impugnato, sulla base del fatto che la patologia patita dal lavoratore (“gonalgia bilaterale”), avendolo costretto a diversi mesi di malattia e a un intervento chirurgico, ne aveva compromesso la normale abilità di svolgimento della prestazione lavorativa; in questo modo, il ricorrente, che non riusciva a lavorare alla stregua dei colleghi, riteneva che le proprie condizioni di salute fossero riconducibili alla nozione di “handicap” ai sensi della
Direttiva 2000/78/CE, nel senso di includervi la malattia, qualora per un periodo considerevole costituisca una limitazione alla piena ed effettiva partecipazione del lavoratore alla vita professionale.
Inoltre, l’illegittimità del licenziamento derivava, secondo il ricorrente, anche da una questione legata al diritto sindacale. Più precisamente, non sarebbe stata applicabile al rapporto di lavoro de quo la disciplina sul comporto di cui al CCNL per dirigenti, quadri, impiegati e operai dipendenti dei settori metalmeccanico, installazione d’impianti odontotecnico (qui anche “CCNL Cisal-Anpit”), posta a fondamento del recesso da parte del datore di lavoro nonostante il contratto individuale indicasse il CCNL metalmeccanici industria, dal momento che il sindacato di appartenenza del ricorrente – la FIOM-Cgil – non risultava tra i firmatari. Gli effetti sono facilmente prevedibili: il CCNL Cisal-Anpit (invocato dal datore di lavoro), sottoscritto da organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente meno rappresentative, disciplina un periodo di comporto più breve rispetto al CCNL Metalmeccanici Industria (oggetto di rivendicazione del lavoratore). Quest’ultimo, infatti, prevede, addirittura, un “comporto prolungato”, spettante nei seguenti casi: “evento morboso continuativo con assenza ininterrotta o interrotta da un’unica ripresa del lavoro per un periodo non superiore a 61 giorni di calendario; quando si siano verificate almeno due malattie comportanti, ciascuna, un’assenza continuativa pari o superiore a 91 giorni di calendario; quando alla scadenza del periodo di comporto breve sia in corso una malattia con prognosi pari o superiore a 91 giorni di calendario” (art. 2, Sezione Quarta – Disciplina del rapporto individuale di lavoro – Titolo VI – Assenze, permessi e tutele).
Infine, il lavoratore ha contestato l’errata interpretazione del CCNL Cisal-Anpit da parte del datore di lavoro convenuto, che non avrebbe considerato la corretta anzianità lavorativa del ricorrente ai fini della valutazione sul comporto.
Sul versante aziendale, il datore di lavoro, contumace in prima udienza, ha quindi potuto avanzare difese spuntate avanti al Tribunale.
È stata contestata la riconducibilità della malattia del lavoratore alla nozione di disabilità, sia come giudicata dal diritto europeo, che a livello domestico. Inoltre, la società resistente, che nel frattempo era uscita dal sistema Federmeccanica, ha ribadito che il CCNL Cisal-Anpit era l’unico applicabile al rapporto di lavoro, sulla base della disdetta unilaterale del datore di lavoro del contratto collettivo applicato in precedenza (CCNL metalmeccanici industria), così confermando l’interpretazione datoriale della norma contrattuale applicata a giustificazione del licenziamento per superamento del comporto.
Va detto, innanzitutto, che il Tribunale, a seguito dell’interrogatorio formale, ha ritenuto la causa matura per la decisione, senza esperire (ulteriore) attività istruttoria. È stata ritenuta fondata la domanda principale del ricorrente (quella sulla discriminatorietà del recesso), il che ha consentito al giudice di non addentrarsi negli ulteriori argomenti avanzati dal lavoratore.
La sentenza chiarisce subito la nullità del recesso in questione, “in quanto discriminatorio, con conseguente applicazione dei primi due commi dell’
art. 18
St. Lav.” (
L. 20 maggio 1970, n. 300). A tale conclusione arriva il giudice di Rovereto sulla base, essenzialmente, di due motivazioni.
La prima è rappresentata dall’equiparazione della malattia occorsa al ricorrente (gonalgia bilaterale) alla nozione di disabilità “elaborata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea”. Sul punto il Tribunale specifica che la prolungata gonalgia sofferta dal ricorrente ha rappresentato “una minorazione fisica” tale da impedirgli di svolgere la propria prestazione alla stregua dei colleghi: in questo modo risultata lesa “la sua partecipazione in condizioni di parità̀ alla vita professionale”. Su tale valutazione ha inciso anche la specifica tipologia di mansioni svolte dal lavoratore: è evidente che la gonalgia penalizza maggiormente chi, anche in piedi, è costretto a sforzi fisici rilevanti, “consistenti principalmente nella movimentazione, con l’ausilio di macchinari, di pesanti pezzi metallici”. Non solo è stata valutata la concreta attività di lavoro, poiché il giudice ha chiarito di aver tenuto conto, nel proprio giudizio, anche della “copiosa documentazione medica versata in atti dal ricorrente”, oltre che – sia concesso esplicitarlo – della contumacia del datore di lavoro convenuto.
In questo senso il Tribunale ha aderito all’interpretazione della questione di cui alle sentenze della Corte di Giustizia Europea che, con sentenza dell’11 aprile 2013 nelle cause riunite C-335/11 e C-337/11, ha chiarito che “La nozione di handicap di cui alla
Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27/11/2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica, causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata” (nello stesso senso, più recentemente, si v.
CGUE 18/1/2018, C-270/16). È, dunque, evidente l’attenzione della giurisprudenza europea al rischio a cui sono soggette le persone disabili, che incontrano maggiore difficoltà rispetto ai lavoratori non affetti da handicap a “reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta alla loro condizione”.
Non mancano, peraltro, decisioni di verso opposto, che prediligono una tesi restrittiva della nozione di disabilità ai fini del mantenimento del posto di lavoro che non obbliga la contrattazione collettiva a periodi di comporto differenziati, sulla scorta di una interpretazione della legislazione europea che lascerebbe un certo margine di discrezionalità sul punto (si v.
Trib. Bologna 19/5/2022, n. 230;
Trib. Vicenza 27/4/2022, n. 181;
App. Palermo 14/2/2022, n. 111; Trib. Venezia 7/12/2021, n. 6273).
In ogni caso, dalle brevi considerazioni di cui sopra il Tribunale di Rovereto ha giudicato come discriminatoria la condotta del datore di lavoro. Secondo il giudice, infatti, la società si è macchiata di non aver applicato condizioni diverse in materia di comporto a situazioni differenti (non disabili e disabili); e tale condotta del datore di lavoro, che ha preteso di applicare, a tal proposito, un contratto collettivo – quello Cisal-Anpit – che non prevedeva tale distinzione, rappresenta una “discriminazione indiretta” sulla base del decisum della recente sentenza della Suprema Corte (
Cass. 31/3/2023, n. 9095).
Nello stesso senso è di recente intervenuto il Tribunale di Lecco (
sentenza del 9/2/2023, giud. Trovò) stabilendo che ogni datore di lavoro è tenuto ad adottare – anche in ragione del diritto europeo (
art. 5,
Dir. 2000/78/CE recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro” e
art. 3, comma 3-bis,
D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, attuativo della direttiva) – “soluzioni ragionevoli”, ossia “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro o di svolgerlo, salvo che tali provvedimenti richiedano da parte dell’imprenditore “un onere finanziario sproporzionato”.
Secondo tale orientamento, dunque, il datore deve porre in essere adeguamenti organizzativi per garantire il principio della parità di trattamento dei disabili, che siano idonei a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa, seppur entro il limite di un onere finanziario proporzionato e non eccessivo; in altri termini, “sussiste insomma un obbligo del datore di lavoro di assegnare il lavoratore, in condizioni di handicap, a mansioni diverse, equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, a condizione che la diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, anche in presenza di un costo, purché sia sostenibile e ragionevole, avuto riguardo anche dell’interesse degli altri dipendenti coinvolti”.
Il Tribunale tridentino ha, pertanto, contestato al datore di lavoro convenuto di non “aver adempiuto all’obbligo di predisporre accomodamenti ragionevoli in favore della conservazione del posto di lavoro del disabile”, con particolare riguardo all’informazione “dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto”: trattasi, dunque, di un accomodamento ragionevole che la società convenuta avrebbe dovuto “predisporre in favore del dipendente disabile”, sulla base – prosegue il giudice – della “particolare interpretazione del contratto collettivo Cisal-Anpit adottata dall’azienda”, che, peraltro, non è previsto dal CCNL Cisal-Anpit. E anche tale omissione è stata considerata “un elemento di discriminazione” a sostegno della “nullità del licenziamento”.
A prescindere dalla condivisione o meno del ragionamento appena sintetizzato, colpisce osservare una stagione di particolare interventismo della magistratura, che segue l’eco mediatica sollevata in materia di salario minimo dalle sentenze di ottobre con cui i giudici si sono assegnati il potere di disapplicare il trattamento retributivo insufficiente applicato nei singoli casi, anche se corrispondente a un contratto collettivo nazionale firmato dalle associazioni datoriali comparativamente più rappresentative (
Cass. 2/10/2023, n. 27711;
Cass. 2/10/2023, n. 27713;
Cass. 2/10/2023, n. 27769;
Cass. 2/10/2023, n. 28320;
Cass. 10/10/2023, n. 28321;
Cass. 10/10/2023, n. 28323;
Trib. Bari 13/10/2023, n. 2720).
Nel caso qui trattato, il Tribunale, senza svolgere alcuna attività istruttoria, ha ricondotto la gonalgia sofferta dal ricorrente tra i casi di disabilità, anche senza un riconoscimento ai sensi della disciplina di legge (“non rileva che la disabilità non sia stata riconosciuta ai sensi della
L. 104/1992, della
L. 68/1999 o, comunque, non rientri nelle varie definizioni di inidoneità̀ o inabilità dettate da discipline settoriali di diritto interno”). Ora, non si intende in alcun modo qui sottovalutare la gravità della patologia in questione; tuttavia, è il giudice stesso a precisare che l’unico modo per comprendere la gravità di una diagnosi patologica sia un “accertamento della menomazione fisica del lavoratore”, e, pertanto, seguendo questo ragionamento, solo il giudice – e non, eventualmente, un medico del lavoro – può ricondurre o meno la patologia alle forme di disabilità. Il rischio è che una tale interpretazione possa portare infinite varietà di malattia nell’alveo della disabilità, con ciò togliendo certezza del diritto alle parti.
Non coglie, infine, nel segno il breve passaggio in cui il Tribunale di Rovereto spiega che l’assorbimento della domanda in via principale (sulla discriminatorietà del recesso) “rende superflua l’analisi degli ulteriori motivi di ricorso, riguardanti il contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro e l’interpretazione della disciplina del periodo di comporto contenuta nel contratto Cisal-Anpit”. Infatti, se da un lato sarebbe stato interessante che il Giudice fosse intervenuto in materia di diritto sindacale, dall’altro non è del tutto vero che si sia astenuto: anzi, la sentenza, più o meno velatamente, contesta una libera scelta delle parti criticando la disciplina del comporto del CCNL Cisal-Anpit, e impone al datore di lavoro l’obbligo di informare i lavoratori dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, pur in assenza di una regola in tal senso nel contratto collettivo, che si presume essere stato negoziato liberamente dalle parti.
Licenziamento per superamento del periodo di comporto e malattia causata dal datore in violazione dell’art 2087 c.c.Cass., sez. lav., 20 aprile 2023, n. 10691 – Pres. Raimondi – Est. Michelini – P.M. (Conf.) Mucci – S. Sas contro B.B.Come noto il mobbing si ravvisa nella condotta datoriale lesiva (in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c.) della sfera professionale o personale del lavoratore, intesa nella pluralità delle sue espressioni, senza che la circostanza che una simile condotta provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, valga ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c., ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto.Il caso Il dipendente di un’azienda cadeva in stato di sindrome depressiva e, a causa di tale di malattia, superava il periodo di comporto.L’azienda, a cagione di quanto sopra, provvedeva al licenziamento del lavoratore stesso.Il dipendente impugnava il recesso in sede giudiziale e, il Tribunale prima e la Corte territoriale poi, dichiaravano illegittimo il recesso con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno da conteggiarsi nelle retribuzioni spettanti dalla data del recesso fino a quella in cui il lavoratore ha esercitato l’opzione per l’indennità sostitutiva alla reintegrazione.Avverso la sentenza di secondo grado, proponeva ricorso per Cassazione l’azienda, affidando il gravame a tre motivi. Il lavoratore resisteva con controricorso.La Corte di Cassazione afferma che l’ampia istruttoria del merito, aveva dimostrato la sussistenza della sindrome depressiva, con la conseguenza che il Giudice aveva rettamente individuato un inadempimento datoriale ex art. 2087 c.c. nella causazione della insorta patologia.La responsabilità del datore, per inadempimento all’obbligo di prevenzione appena visto, è una responsabilità colposa fondata su una violazione di obblighi di comportamento a protezione della salute del lavoratore, imposti dalla legge o suggeriti dalla tecnica.La prova della responsabilità datoriale richiede l’allegazione da parte del lavoratore sia dei fattori di rischio, sia della violazione dei detti obblighi e dei danni subiti.D’altro lato, il datore deve provare di avere adottato tutte le cautele che, pur non dettate dalla legge, siano consigliate da conoscenze sperimentali e tecniche e dagli standard di sicurezza normalmente osservati.Ne discende come, nella specie, vi sia la necessità di prova del fatto che ha generato il danno: non si pone una questione di classificazione o di maggiore o minore aderenza alla nozione di mobbing, atteso che trattasi di nozione extra giuridica utilizzata per descrivere in maniera sintetica i comportamenti datoriali illeciti, quali causativi del danno alla professionalità del lavoratore o alla sua integrità psicofisica, in violazione del generale dovere di sicurezza e di tutela delle condizioni di lavoro.Da ultimo, la Corte Suprema precisa che il vizio di motivazione non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal Giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dar luogo a vizio di omesso esame di un punto decisivo.In conclusione, il ricorso è dichiarato inammissibile, con condanna della azienda al pagamento delle spese e del contributo unificato. |