Intro
Il contratto di lavoro è un accordo tra datore di lavoro e dipendente che definisce i termini del rapporto di lavoro. Tra questi termini, l’orario di lavoro è uno dei più importanti.
In particolare, se il contratto non prevede un orario di lavoro a tempo parziale, si presume che il lavoratore sia stato assunto a tempo pieno.
Questa è la conclusione a cui è arrivata la Corte di Cassazione, Sezione lavoro, nell’ordinanza n. 28862 del 18 ottobre 2023.
E’ possibile che, nonostante il rapporto di lavoro subordinato full time, il datore di lavoro possa dimostrare, anche attraverso fatti inequivocabili, che ci siano state riduzioni o sospensioni concordate delle prestazioni lavorative, e di conseguenza delle relative retribuzioni, in relazione all’orario giornaliero o ai giorni di lavoro.
L’Inizio della Controversia
Un dipendente di una società, dopo aver cambiato datore di lavoro nel 2012, ha presentato una richiesta al Tribunale di Firenze per ottenere un decreto ingiuntivo per il pagamento di €971,68.
Questa somma rappresentava la differenza tra la retribuzione mensile dovuta a lui come lavoratore a tempo pieno per il mese di marzo 2016 e quella effettivamente ricevuta, basata su sole 72 ore di lavoro.
Il dipendente ha sostenuto di non aver mai firmato un contratto di lavoro part-time, né al momento dell’assunzione nel 1996, né nel 2009 quando è stato stipulato un accordo sindacale aziendale che ha ridotto l’orario di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
L’Opposizione della Società
La società ha presentato un’opposizione, chiedendo l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro part-time tra le parti, in base ai giorni e orari specificati.
La Risposta del Dipendente
Il dipendente si è costituito in giudizio e ha avanzato una domanda subordinata di accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno almeno dall’01/03/2016.
Il Cambio di Giurisdizione e la Nuova Richiesta
Dopo che il Tribunale di Firenze si è dichiarato incompetente e la causa è stata riassunta davanti al Tribunale di Lucca, il lavoratore ha presentato un ulteriore ricorso, chiedendo che la società fosse condannata a pagare €6.442,27 come differenza retributiva tra il tempo pieno e l’orario effettivamente osservato, per il periodo da marzo ad ottobre 2016.
La Decisione del Tribunale
Dopo aver riunito i ricorsi, il Tribunale ha accolto la domanda del dipendente, ha dichiarato che esisteva tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e ha condannato la società a pagare le conseguenti differenze retributive.
L’Appello e la Decisione della Corte d’Appello
Entrambe le parti hanno presentato appello contro la decisione del Tribunale. La Corte d’appello ha accolto parzialmente l’appello incidentale della società e ha rigettato la domanda del dipendente, ma ha confermato il rigetto della domanda riconvenzionale della società.
La Corte d’appello ha motivato la sua decisione affermando che il dipendente era stato assunto diversi anni fa e aveva sempre lavorato nei soli giorni di apertura del locale.
Non erano mai stati stipulati contratti scritti, né quindi contratti di lavoro part-time.
Tuttavia, un accordo sindacale aziendale del 2009 aveva introdotto una nuova disciplina ai rapporti di lavoro e aveva stabilito un numero minimo di giornate di apertura, garantendo così ai dipendenti un minimo di trattamento retributivo. Questo accordo era stato rispettato da entrambe le parti.
La massima della Corte di Appello
Alla luce di questi fatti, la Corte d’appello ha concluso che il rapporto di lavoro di tutti i dipendenti, compreso il dipendente in questione, era da molti anni, se non dall’origine, a tempo parziale verticale, per i giorni di apertura del locale, per comune intesa delle parti. Anche se al momento dell’assunzione il contratto di lavoro a tempo parziale doveva essere concluso per iscritto, la Corte ha riconosciuto che il datore di lavoro poteva dimostrare l’intervento di una riduzione consensuale dell’orario di lavoro.
“anche con riguardo alla L. n. 863/1984, la Corte di Cassazione ammette che il datore di lavoro possa dimostrare l’intervento di una riduzione consensuale della prestazione lavorativa, ovvero di una novazione oggettiva del rapporto con nuova manifestazione di volontà anche per fatti concludenti (Cass. n. 25047/2020; Cass. n. 14684/2019; Cass. n. 1375/2018; Cass. n. 5518/2004)».
La sentenza della Cassazione
La Corte ha ribadito che, in assenza di un contratto scritto che specifica diversamente, si presume che un rapporto di lavoro subordinato sia costituito su base full time.
Questo significa che se non c’è un accordo scritto che indica che un lavoratore è impiegato part time, si presume che stia lavorando a tempo pieno.
Tuttavia, la Corte ha anche affermato che un datore di lavoro può dimostrare l’esistenza di sospensioni concordate delle prestazioni lavorative.
Ad esempio, se un lavoratore e un datore di lavoro concordano che il lavoratore non lavorerà durante certi giorni (come i giorni in cui il luogo di lavoro è chiuso), queste sospensioni possono essere considerate parte integrante del contratto di lavoro.
Le sospensioni concordate possono diventare clausole tacite del contratto di lavoro. Ciò significa che diventano parte integrante del contratto, anche se non sono esplicitamente scritte. Tuttavia, se il datore di lavoro vuole modificare queste sospensioni concordate in futuro, avrà bisogno del consenso del lavoratore. Non può imporre unilateralmente queste modifiche.
La Suprema Corte accoglie (parzialmente e con rinvio) il ricorso del lavoratore, e sostiene che
«il rapporto di lavoro subordinato – che ha avuto consensuale esecuzione nei soli giorni di apertura del locale poi gestito da C.d.F. S.r.l. – si presume costituito full time e in tal modo va qualificato sul piano giuridico qualora il part time non risulti da patto con forma scritta, richiesta ad substantiam secondo la disciplina vigente».
In sostanza la Suprema Corte stabilisce che «una volta raggiunta la prova di tali sospensioni, esse si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time» e che «una volta integrato in tal modo il contratto, eventuali modifiche successive di quelle sospensioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro».