Nel mondo moderno del lavoro, lo stress e il demansionamento possono diventare questioni critiche. Questo articolo esamina una sentenza recente in cui un’azienda è stata condannata per aver creato un ambiente di lavoro stressante che ha portato a un forte e illegittimo demansionamento, costringendo infine una manager a rassegnare le dimissioni.
Straining
La sentenza n. 29101 della Corte Suprema, che ha accolto il ricorso del lavoratore con rinvio, ha determinato che se è presente un “straining”, la richiesta di risarcimento deve essere accettata.
Definizione di “Straining” e “Mobbing”
Lo straining e il mobbing sono due forme di comportamento dannoso nei confronti dei lavoratori sul posto di lavoro. Tuttavia, a differenza del mobbing, che necessita di un comportamento ripetuto nel tempo, lo straining può essere attivato da un singolo evento altamente stressante da parte del capo. Un unico incidente di forte stress, causato dal superiore, può innescare il diritto al risarcimento del danno per il lavoratore. A differenza del mobbing, che richiede un comportamento ripetuto, per lo straining è sufficiente un singolo atto isolato.
Lo straining è una forma di stress lavorativo che si manifesta attraverso la richiesta di obiettivi irraggiungibili, la mancanza di supporto da parte del datore di lavoro e la riduzione delle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro.
Anche se lo straining è una forma attenuata di mobbing, può essere ugualmente dannoso per la salute dei lavoratori. Inoltre, se viene accertato lo straining, il lavoratore ha comunque il diritto di richiedere il risarcimento del danno in base all’articolo 2087 del Codice Civile.
Questo perché lo straining viola l’articolo 2087 del codice civile, che obbliga il datore di lavoro a proteggere l’integrità fisica e la personalità morale dei suoi dipendenti. Una volta provato, lo straining dà diritto al risarcimento. Questo è stato stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 29101, che ha accolto il ricorso del lavoratore con rinvio.
Il Caso
Un dipendente di una compagnia di telecomunicazioni ha ottenuto un inquadramento superiore al 5° livello del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, il pagamento delle differenze retributive e l’integrazione del TFR a seguito di una riduzione di mansione.
Tuttavia, la richiesta di risarcimento dei danni per mobbing è stata negata dalla Corte di appello a causa della mancanza di prove sulla ripetitività delle azioni mobbizzanti.
Il lavoratore ha subito un attacco ischemico durante una discussione accesa con la dirigente. La dirigente ha preso il suo posto al computer, facendolo alzare mentre stava lavorando, e ha cancellato diversi file. Quando il lavoratore ha fatto notare la cosa, la dirigente ha risposto con arroganza. La discussione si è intensificata fino a quando il lavoratore ha avuto l’attacco ischemico. La supervisor ha chiamato un’ambulanza e il lavoratore è stato ricoverato.
Nonostante ciò, la Corte non ha ritenuto l’attacco ischemico subito dal lavoratore durante una discussione accesa come sufficiente per stabilire un caso di mobbing, considerando tale episodio come un evento isolato.
La Decisione della Corte Suprema
Contrariamente alla decisione della Corte d’appello, la Corte Suprema ha stabilito che anche un singolo atto stressante può essere considerato una violazione dell’art. 2087 del codice civile.
Tale articolo obbliga il datore di lavoro a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Pertanto, se viene accertato uno stress lavorativo, anche in assenza di mobbing, la richiesta di risarcimento del danno deve essere comunque accolta.
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha affermato che questo orientamento è obsoleto, privilegiando invece l’idea che ciò che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia considerato un atto illecito ai sensi dell’art. 2087 c.c. da cui derivi una lesione degli interessi del lavoratore protetti dalla Costituzione, come l’integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale e la partecipazione alla vita sociale e politica.
La Corte ha sottolineato che ciò che conta è che il fatto commesso, anche se isolato, sia un atto illecito da cui derivi la violazione degli interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica).
L’Impatto sul Quantum del Risarcimento
La ripetizione e l’intensità del danno subito possono influire sulla quantità del risarcimento, ma qualsiasi violazione dei diritti protetti a livello costituzionale deve essere reagita e protetta attraverso il risarcimento del danno. Ciò significa che se un lavoratore subisce uno straining, che è una forma attenuata di mobbing, la richiesta di risarcimento del danno deve essere accolta, anche se non viene accertato il mobbing.
Mentre la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta possono incidere sul quantum del risarcimento, non può essere ignorata alcuna violazione degli interessi protetti a livello costituzionale, come l’integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale e la partecipazione alla vita sociale e politica del lavoratore. In ogni caso, il datore di lavoro ha la responsabilità contrattuale di dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza, indipendentemente dalla colpa datoriale.
Il Riconoscimento dello Straining
Anche se lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni, è sempre riconducibile a una violazione dell’art. 2087 cod. civ. Pertanto, se viene accertato lo straining e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta.
La Suprema corte ricorda il proprio orientamento costante (tra le tante, 18164/2018) «secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’articolo 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta»; e continua ribadendo il valore dirimente assegnato al rilievo dell’ambiente lavorativo stressogeno «quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche» (Cass. 3692/2023).
Il Ruolo dell’Ambiente Lavorativo Stressogeno
La Corte Suprema ha assegnato valore dirimente all’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche.
L’importanza del luogo di lavoro
CASS. CIV, SEZ. LAV., ORD., 18 OTTOBRE 2023, N. 2892
Il Caso
Una manager in una società a responsabilità limitata (srl) ha subito un progressivo svuotamento delle sue mansioni, che ha portato a condizioni di lavoro insostenibili. Queste condizioni hanno alla fine spinto la manager a rassegnare le dimissioni.
Per fornire maggiori informazioni sulla vicenda, la lavoratrice ha riferito di essere stata inizialmente responsabile di un servizio, con responsabilità manageriali e collaboratori a lei subordinati. Era inoltre incaricata di raggiungere specifici budget e aveva autonomia nelle relazioni esterne.
Dopo aver richiesto il part time, le sono state immediatamente tolte le responsabilità manageriali e le sono state assegnate solo attività operative.
In seguito all’assenza per maternità, la lavoratrice è stata ulteriormente demansionata, perdendo l’autonomia che ancora caratterizzava le sue ridotte mansioni.
La Sentenza
La società è stata condannata a risarcire il danno da demansionamento, calcolato come una percentuale della retribuzione della manager dal 2007 al 2018, e il danno biologico. Inoltre, è stata ordinata la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso, a causa della giusta causa delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice.
Il Ricorso
Nonostante la condanna dell’azienda, la manager ha presentato un ricorso in Cassazione per far riconoscere le sue condizioni lavorative come mobbing. Ha sostenuto che il demansionamento progressivo faceva parte di una strategia aziendale più ampia volta al suo allontanamento. Ha anche riferito di essere stata oggetto di aggressioni verbali, violazione della privacy e privazioni degli strumenti di lavoro.
La lavoratrice ha dichiarato che il suo demansionamento progressivo faceva parte di una strategia aziendale più ampia per allontanarla. Ha inoltre affermato di essere stata oggetto di aggressioni verbali, violazione della privacy (tramite la lettura della posta) e privazioni di strumenti di lavoro.
La lavoratrice ritiene che tali comportamenti siano vessatori e mortificanti, e che abbiano avuto conseguenze devastanti sulla sua salute fisica e mentale, nonché sulla sua situazione economica e lavorativa.
La Valutazione del Mobbing
In sintesi, i giudici d’Appello hanno escluso la possibilità di configurare il mobbing a causa della mancanza di prove di un intento persecutorio nei confronti della lavoratrice.
Tuttavia, ritengono che la superiore gerarchica abbia creato un ambiente lavorativo in cui le mansioni della lavoratrice sono state progressivamente svuotate.
Queste condizioni di lavoro intollerabili e l’ambiente creato dalla superiore gerarchica sono state confermate da diversi dipendenti, mettendo così in imbarazzo l’azienda.
In premessa, comunque, i Magistrati precisano che è possibile configurare il mobbing lavorativo quando sono presenti sia un elemento obiettivo, costituito da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona all’interno del rapporto di lavoro, sia un elemento soggettivo di intento persecutorio nei confronti della vittima.
Ciò vale indipendentemente dalla legittimità intrinseca di ciascun comportamento, poiché l’intenzione di nuocere rende illecite anche condotte altrimenti astrattamente legittime. Inoltre, i giudici sottolineano che è possibile configurare lo straining, ovvero situazioni in cui vengono compiuti consapevolmente comportamenti stressogeni nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità di azioni vessatorie.
In breve, per considerare un caso di mobbing non basta solo la presenza di comportamenti illegali o di una dequalificazione da parte del datore di lavoro.
È necessario che il lavoratore fornisca prove concrete che dimostrino che questi comportamenti fanno parte di un disegno persecutorio finalizzato alla prevaricazione. In caso contrario, sebbene non si possa parlare di mobbing, è comunque possibile riscontrare una violazione della normativa sulla tutela delle condizioni di lavoro se il datore di lavoro permette un ambiente stressante o adotta comportamenti che causano disagio o stress, aggravando gli effetti e la gravità del pregiudizio sulla salute e la personalità dei lavoratori.
La Richiesta di Risarcimento
La lavoratrice afferma che la sua cessazione dal lavoro è stata causata dalle lesive condotte del datore di lavoro e che avrebbe potuto continuare a lavorare se non fosse stato per questo. Rivendica un danno patrimoniale per le dimissioni riconosciute come assistite da giusta causa.
Tuttavia, i Giudici di Cassazione non hanno ritenuto che la ricostruzione fornita dalla lavoratrice fosse sufficientemente chiara e provata.
l’importanza del luogo di lavoro
Se un lavoratore è costretto a dare le dimissioni a causa dello stress derivante dal luogo di lavoro, specialmente in seguito ad un demansionamento illegittimo, l’azienda può essere condannata. In un caso specifico, una manager di una società a responsabilità limitata ha subito delle difficoltà lavorative che, nel tempo, hanno portato alla sua decisione di dimettersi.
In questa circostanza i giudici hanno ritenuto che l’azienda fosse responsabile per le cattive condizioni di lavoro in cui la dipendente si è trovata ad operare.
Questo caso mette in evidenza l’importanza di mantenere un ambiente di lavoro sano e rispettoso.
Le aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori possono essere ritenute responsabili e condannate a risarcire i danni.
Inoltre, la Cassazione ha sottolineato che un ambiente lavorativo stressogeno è considerato un comportamento ingiusto e può portare alla revisione di tutte le altre azioni dell’azienda che possono essere percepite come vessatorie, anche se legali o sporadiche. Questa protezione del lavoratore trova fondamento nell’articolo 2087 del codice civile, che è orientato costituzionalmente.
Massime
Rapporto di Lavoro – Mobbing – Straining – Vessazioni – Risarcimento danni – Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cc
Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perchè priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’articolo 2087 c.c., sicchè se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta. L’ambiente lavorativo stressogeno viene riconosciuto come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorchè apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata dell’art. 2087 c.c..
• Corte di Cassazione, civ. sez. L, ordinanza del 19 ottobre 2023, n. 29101
Lavoro – Lavoro subordinato (nozione, differenze dall’appalto e dal rapporto di lavoro autonomo, distinzioni) – Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro – Tutela delle condizioni di lavoro ’mobbing’ lavorativo – Assenza di intento persecutorio – Configurabilità – Esclusione – Condotte ’stressogene’ anche colpose – Violazione dell’art. 2087 c.c. – Sussistenza
In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi.
• Corte di Cassazione, civ. sez. L, ordinanza del 07 febbraio 023, n. 3692
Lavoro – Lavoro subordinato (nozione, differenze dall’appalto e dal rapporto di lavoro autonomo, distinzioni) – Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro – Tutela delle condizioni di lavoro obbligo datoriale di protezione ex art. 2087 c.c. – Tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa – Necessità – ’Straining’ – Configurabilità – Condizioni.
In tema di tutela della salute del lavoratore nell’ambiente di lavoro, rientra nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c. la tutela contro le tecnopatie da costrittività organizzativa, potendosi configurare lo “straining” sia in presenza di comportamenti stressogeni scientemente attuati dal datore di lavoro nei confronti di un dipendente, sia in caso di una condotta datoriale che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute.
• Corte di Cassazione, civ. sez. L, ordinanza del 11 novembre 2022, n. 33428
In sintesi è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra
i) l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona
ii) quello soggettivo dell’intento persecutorio nei confronti della vittima (cfr. Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684),
è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (cfr. Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).
Per poter parlare di “mobbing” sul luogo di lavoro, non basta che il datore di lavoro abbia commesso diverse azioni illegali.
È fondamentale che il lavoratore presenti prove concrete che dimostrino che tali comportamenti fanno parte di un pattern di persecuzione unificante volto a intimidire. Al contrario, se il datore di lavoro assegna deliberatamente al lavoratore un incarico inadeguato, si parla di “straining”.
Questi sono i criteri che la giurisprudenza italiana ha stabilito per identificare queste due fattispecie di molestie sul luogo di lavoro.