Il principio
In un recente orientamento giurisprudenziale, la Corte di Cassazione ha riaffermato con fermezza la tutela dell’integrità morale e fisica dei lavoratori sul posto di lavoro, soprattutto in relazione alle molestie sessuali. Attraverso la sentenza n. 20239, depositata il 26 settembre 2023, la Suprema Corte ha stabilito che il licenziamento di un dipendente, responsabile di molestie sessuali nei confronti di una collega, è da considerarsi legittimo e conforme alle normative vigenti.
2087 c.c.
La decisione segue il principio cardine espresso dall’articolo 2087 del Codice Civile, che impone al datore di lavoro l’onere di garantire un ambiente lavorativo sicuro e rispettoso dell’integrità fisica e morale dei lavoratori. In questo contesto, non è rilevante la mancanza di una specifica previsione nel codice disciplinare aziendale, né può essere invocata la neutralità del datore di lavoro nei confronti delle dinamiche interpersonali tra i dipendenti.
Non solo fisicamente
La Cassazione ha chiarito che le molestie sessuali non necessitano di una manifestazione fisica diretta o di un’intenzione esplicitamente offensiva per essere sanzionate. È sufficiente che il comportamento indesiderato, verbale o fisico, abbia l’effetto di violare la dignità della persona e di creare un ambiente lavorativo ostile o umiliante.
Conseguentemente, anche allusioni verbali o comportamenti ambigui, pur in assenza di contatto fisico, possono configurare una violazione tale da giustificare il licenziamento per giusta causa. Ciò sottolinea l’importanza di un codice di condotta professionale che riconosca e tuteli la dignità di ogni lavoratore, indipendentemente dal genere.
I fatti di Palermo
Nel dicembre del 2017, una Fondazione ha licenziato un dipendente per giusta causa dopo aver seguito la procedura disciplinare prevista dall’articolo 7 della legge 300/1970.
Il licenziamento è stato motivato da una serie di gravi elementi debitamente contestati.
Questi elementi si riferiscono a due episodi specifici: il primo, avvenuto alla fine di ottobre, in cui il dipendente è stato accusato di aver palpeggiato una collega durante l’orario di lavoro, configurando un caso di molestie; il secondo episodio, avvenuto nel luglio precedente, in cui il dipendente ha rivolto commenti gravemente inopportuni alla presenza di altri verso un’altra collega.
La decisione del Tribunale di Palermo
Il lavoratore ha presentato un ricorso per il licenziamento presso il Tribunale di Palermo, che ha competenza territoriale. Durante la fase sommaria del procedimento, il Tribunale ha emesso un’ordinanza favorevole al lavoratore, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e accordando al lavoratore la tutela prevista dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012 (nota come Legge Fornero).
La decisione della Corte di Appello di Palermo
La Corte d’Appello di Palermo, dopo aver esaminato il reclamo presentato dal datore di lavoro, ha modificato la decisione di primo grado e ha confermato la legittimità del licenziamento. Di conseguenza, il lavoratore è stato condannato a restituire tutte le somme ricevute come risarcimento del danno a partire dalla data del licenziamento fino alla reintegrazione, comprensive di interessi e spese legali, in base al principio di soccombenza.
La linea della Cassazione
La Cassazione ha confutato la ricostruzione del ricorrente, ricordando che anche il Tribunale di primo grado (che aveva emesso la sentenza più favorevole al ricorrente) aveva evidenziato le intenzioni tutt’altro che scherzose del comportamento del lavoratore, che certamente non poteva essere ridotto a semplice cameratismo.
Anzi, tale comportamento era volto a causare una mortificazione psicologica alla destinataria del gesto, soprattutto considerando il ruolo gerarchicamente superiore del ricorrente (a cui le due dipendenti destinatarie dei comportamenti contestati si rivolgevano con il “lei”).
I fatti di Milano
In una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito i principi di tutela del lavoratore nel contesto delle relazioni interpersonali in ambito lavorativo, con specifico riferimento alle molestie sessuali.
Con l’ordinanza n. 31790 del 15/11/2023, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente di un istituto bancario. Questo dipendente, nonostante fosse già stato diffidato in precedenza, ha mantenuto un atteggiamento irrispettoso nei confronti di alcune sue colleghe. Tali colleghe sono state vittime di ripetuti approcci e inviti a sfondo sessuale.
Questo atto si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai consolidato, che vede la Corte di Cassazione impegnata nella protezione dell’integrità morale e psicologica dei lavoratori.
La decisione segue la linea interpretativa che considera il licenziamento per giusta causa come una misura proporzionata e necessaria in casi di violazioni gravi e reiterate del codice etico aziendale e della dignità personale dei lavoratori
Il dipendente, nonostante fosse stato espressamente diffidato, ha continuato a manifestare un comportamento inappropriato, generando un ambiente lavorativo ostile per le sue colleghe. Tale condotta è stata ritenuta sufficientemente grave da giustificare la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro per iniziativa del datore
La sentenza pone l’accento sulla responsabilità individuale dei dipendenti nel mantenere standard comportamentali adeguati e sul ruolo dei datori di lavoro nel garantire un ambiente di lavoro rispettoso e sicuro per tutti i lavoratori.
Inoltre, sottolinea l’importanza della pronta reazione aziendale nelle situazioni in cui si verifichino comportamenti scorretti, inviando un chiaro messaggio sulla tolleranza zero verso le molestie sessuali sul luogo di lavoro.
Nei giudizi di merito, sia il Tribunale del lavoro (sentenza n. 2494/2019) che la Corte di Appello di Milano (sentenza n. 439/2020) hanno respinto l’opposizione del lavoratore al licenziamento.
Entrambi i tribunali hanno esaminato dettagliatamente i comportamenti scorretti tenuti dal lavoratore nel corso di alcuni mesi e hanno concluso che il licenziamento era adeguato e proporzionato in base ai fatti accertati.
Sul principio, due lavoratrici avevano segnalato all’azienda i ripetuti approcci ed inviti sgradevoli, da parte del collega, ricevuti attraverso il continuo inoltro di messaggi tramite il sistema di comunicazione aziendale interno e tramite SMS.
I superiori avevano pertanto convocato il lavoratore in una riunione ristretta, anche alla presenza di una sindacalista, per stigmatizzare i suoi comportamenti ed invitarlo con specifica diffida scritta a desistere da essi.
Ma, invece di mutare atteggiamento, pochi giorni dopo il dipendente persisteva nell’inoltrare, durante l’orario di lavoro, inviti e richieste di incontro alle medesime colleghe che avevano sollevato il caso e, in un’altra occasione, era stato sentire gridare dal bagno frasi ed epiteti alquanto volgari, sempre a sfondo sessuale, e transitare continuamente davanti alla porta di una delle colleghe vittima delle molestie.
Ad aggravare la situazione e il disagio sul luogo di lavoro, nonostante la società abbia diffidato il dipendente e gli abbia fatto altri richiami verbali per mantenere un atteggiamento civile e corretto, questi ha continuato a inviare messaggi persecutori e a fare inviti inappropriati alle colleghe.
Conclusioni
Nell’ultimo periodo, sia la Corte di Cassazione che i Giudici di merito hanno affrontato diverse volte il tema delle molestie tra colleghi sul luogo di lavoro, che si verificano principalmente ai danni delle lavoratrici. Questa problematica è sempre più diffusa e sta ricevendo una maggiore attenzione sociale.
Il presunto “clima scherzoso e goliardico” tra i colleghi non può giustificare il comportamento molesto di un lavoratore nei confronti di una collega. Secondo la sentenza della Corte di Cassazione numero 23295/2023, è stato stabilito che il comportamento molesto non può essere giustificato da un ambiente di lavoro giocoso.