Il Nuovo Volto dello Smart Working: Da Flessibilità a Misura Sanitaria
La legge 81/2017 ha segnato una svolta nell’ambito lavorativo italiano, introducendo e normando il concetto di “lavoro agile”.
Questa modalità lavorativa, originariamente pensata per favorire l’equilibrio tra gli impegni professionali e la vita privata dei dipendenti, è stata considerata un pilastro nella conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Da Ufficio a Casa: La Rivoluzione dello Smart Working in Italia Post-Pandemia
L’esperienza pandemica ha trasformato lo smart working in qualcosa di più che un semplice strumento di flessibilità lavorativa; è diventato una “misura sanitaria” essenziale.
In questo contesto straordinario, il lavoro da remoto ha assunto il ruolo di barriera contro la diffusione del virus, proteggendo la salute dei lavoratori e garantendo al contempo la continuità operativa delle aziende.
La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto significativo sul mondo del lavoro, accelerando la diffusione dello smart working, noto anche come lavoro agile o telelavoro. Prima della pandemia, in Italia, l’88% dei lavoratori non aveva mai lavorato da casa, ma durante la pandemia, la percentuale di chi lavorava da remoto è aumentata notevolmente.
Durante la prima ondata del Covid-19, il numero di lavoratori agili è cresciuto dai 570.000 stimati pre-pandemia, con un incremento particolarmente evidente nelle pubbliche amministrazioni (PA), dove la diffusione del lavoro da remoto è passata dal 67% al 57% delle organizzazioni.
Il telelavoro ha presentato sfide legate all’organizzazione dell’orario lavorativo e all’equilibrio tra vita privata e professionale, con un impatto particolarmente forte sulle donne, che spesso devono gestire anche le responsabilità familiari. Inoltre, il principale ostacolo al lavoro da remoto è risultato essere la connessione internet.
La ricerca ha dimostrato che una connessione Internet di scarsa qualità può danneggiare seriamente la salute aumentando i livelli di stress. Uno studio condotto da Ericsson a Copenhagen su un campione di 30 volontari di età compresa tra 18 e 52 anni ha dimostrato che ritardi e interruzioni nella connettività internet possono portare a livelli di stress paragonabili a quelli sperimentati guardando un film horror
L’adozione dello smart working ha garantito la continuità aziendale, ma ha comportato anche situazioni di stress lavoro-correlato.
Una connessione Internet lenta è una delle difficoltà tecniche incontrate dai lavoratori a distanza e contribuisce ad aumentare lo stress e l’ansia.
Lo stress nasce quando si inseguono compiti e obiettivi che sembrano irraggiungibili e una connessione Internet lenta può esacerbare questa sensazione. L’esperienza del lavoro da casa durante il lockdown ha evidenziato nuovi rischi per la salute, tra cui lo stress derivante da problemi tecnologici come computer inefficienti o Wi-Fi lento a causa di connessioni Internet scadenti.
Secondo uno studio, il 41,3% dei lavoratori intelligenti in Italia ha riferito di sentirsi stressato, e una connessione Internet lenta è uno dei fattori che contribuiscono.
È essenziale che sia gli individui che le organizzazioni riconoscano e affrontino questi problemi per preservare il benessere e la produttività dei lavoratori a distanza.
Il diritto alla disconessione
Il diritto alla disconnessione è un concetto che si riferisce alla possibilità per i lavoratori di non essere costantemente raggiungibili al di fuori dell’orario di lavoro, senza che ciò possa compromettere la loro situazione lavorativa.
Questo diritto è particolarmente rilevante nel contesto dello smart working, dove la linea tra vita professionale e vita privata può diventare sfumata a causa della costante e potenziale disponibilità del lavoratore.
In Italia, il diritto alla disconnessione è stato introdotto con la Legge 81/2017, che regolamenta lo smart working.
Tuttavia, a differenza di altri ordinamenti, come quello francese, la legge italiana non ha riconosciuto la disconnessione come un diritto autonomo.
L’articolo 19 della legge stabilisce che l’accordo relativo alla modalità di lavoro agile deve essere stipulato per iscritto e disciplinare l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali.
Inoltre, la legge non definisce un intervallo di tempo in cui il lavoratore ha diritto a disconnettersi, ma impone che le parti si accordino individuando in quali orari il dipendente ha diritto a non essere reperibile.
A livello europeo, il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione europea di proporre una legge che permetta ai lavoratori di disconnettersi al di fuori dell’orario lavorativo senza conseguenze e che stabilisca degli standard di base da rispettare per il lavoro da remoto.
Tuttavia, attualmente non esiste una normativa comunitaria specifica sul diritto alla disconnessione, e la legislazione in materia varia notevolmente tra i diversi Stati membri.
Smart Working e fragilità
In Italia, la legge prevede che i lavoratori fragili, sia pubblici che privati, abbiano il diritto di svolgere la loro attività lavorativa in modalità di smart working. Questa disposizione è stata introdotta per proteggere i lavoratori che, a causa di condizioni di salute particolari, potrebbero essere a rischio in caso di esposizione al COVID-19
I lavoratori fragili sono definiti come coloro che presentano patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di rischio in caso di infezione da SARS-CoV-2. Questa categoria include anche i lavoratori che hanno necessità di prendersi cura di un familiare disabile
La Legge di Bilancio 2023 ha previsto che, fino al 31 dicembre 2023, per i lavoratori fragili, il datore di lavoro assicura lo svolgimento della prestazione lavorativa in smart working, senza alcuna decurtazione della retribuzione. Tuttavia, per i lavoratori fragili del settore privato, il lavoro agile è stato prorogato fino al 31 marzo 2024.
Decide il datore di lavoro
Nonostante queste disposizioni, la compatibilità con lo smart working per i lavoratori fragili deve essere valutata anche alla luce delle esigenze concrete dell’azienda. In un caso portato davanti al Tribunale di Trieste, è stato deciso che il datore di lavoro ha il diritto di modificare la quota di attività svolta fuori sede, a patto che ciò sia compatibile con le esigenze dell’azienda
Un’impiegata certificata come lavoratrice fragile lavorava, in base a un accordo individuale a termine, in modalità di lavoro agile a tempo pieno, cinque giorni su cinque a settimana.
Alla scadenza del termine, il datore di lavoro le ha comunicato che, in un contesto organizzativo mutato, avrebbe dovuto lavorare tre giorni in ufficio e due da casa.
Il dipendente ha contestato questa decisione facendo riferimento alla norma introdotta durante la pandemia e prorogata più volte (ultima volta fino al 31 marzo 2024), che riconosce il diritto allo smart working per i lavoratori dichiarati fragili dal medico competente e per i genitori di figli minori di 14 anni, compatibilmente con le caratteristiche della prestazione.
La dipendente sostiene che le sue funzioni sono pienamente compatibili con il modello di telelavoro poiché ha già eseguito i suoi compiti in modalità remota per gli ultimi tre anni.
D’altro canto, il datore di lavoro ha contestato la legittimità della disputa giudiziaria riguardante le sue decisioni gestionali e ha difeso la decisione di negare il lavoro da remoto completo citando motivi organizzativi.
Ha spiegato che c’è stato un incremento significativo del carico di lavoro assegnato alla lavoratrice, il quale non permette più di affidare ad altri colleghi quelle parti del lavoro che richiedono presenza fisica, come si faceva prima dell’aumento del carico di lavoro.
Il giudice ha respinto il reclamo presentato dalla dipendente, sottolineando che il diritto al lavoro agile, garantito ai lavoratori fragili dall’articolo 90, comma 1, del decreto legge Rilancio – che è stato prorogato più volte – non è incondizionato, ma è espressamente condizionato alla compatibilità con le esigenze del servizio.
Tale compatibilità, e la valutazione di essa da parte del datore di lavoro, è comunque soggetta al controllo giudiziario, anche per quanto riguarda il rispetto dell’obbligo di agire in buona fede durante l’adempimento del contratto.
Dopo aver esaminato la situazione, il Tribunale ha ritenuto valide e legittime le nuove esigenze organizzative che hanno indotto il datore di lavoro a modificare le precedenti disposizioni, consentendo al dipendente di effettuare telelavoro solo per una porzione della settimana lavorativa.
Di conseguenza, la sentenza stabilisce che la possibilità di svolgere smart working per i lavoratori fragili, così come per i genitori con figli sotto i 14 anni, può essere adeguata alle necessità organizzative dell’azienda, che possono richiedere che alcune attività siano eseguite in presenza.
In sostanza, ciò implica che la valutazione sulla compatibilità del lavoro da svolgere in modalità agile, che è un prerequisito per l’accesso allo smart working per le categorie interessate, non deve essere condotta in termini generali né considerata definitiva una tantum.
Smart Working: Dalla Necessità alla Normalità nel Post-Pandemia
La pandemia di COVID-19 ha costituito un banco di prova senza precedenti per il mondo del lavoro, spingendo molte aziende a esplorare nuove frontiere dell’organizzazione lavorativa.
Lo smart working, un tempo visto come una soluzione temporanea per prevenire il contagio, è diventato una modalità operativa stabile, aprendo la strada a modelli di lavoro “ibridi” che combinano la presenza in ufficio con la flessibilità del telelavoro.
In questo scenario emergente, il lavoro agile ha iniziato a riscoprire e a valorizzare la sua intrinseca natura flessibile.
Questa caratteristica, che ne costituisce la ratio, sta tornando prepotentemente al centro delle politiche aziendali, non più come risposta ad una crisi sanitaria ma come una scelta strategica orientata al futuro.
Le esperienze maturate nel periodo pandemico hanno messo in luce i vantaggi di questa modalità: miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e personale, riduzione dei tempi di pendolarismo, diminuzione dell’inquinamento urbano e ottimizzazione degli spazi aziendali.
Allo stesso tempo, si sono evidenziati anche aspetti critici da non sottovalutare, come il bisogno di interazione sociale e la gestione della produttività.
Ora che lo smart working sta diventando una prassi consolidata, le aziende sono chiamate a ridefinire le loro politiche interne per garantire che questa flessibilità non si traduca in una dilatazione degli orari lavorativi o in una minore protezione dei diritti dei lavoratori.
Al contrario, è fondamentale che la flessibilità vada di pari passo con la sostenibilità, assicurando che le nuove forme di lavoro siano inclusive e vantaggiose per tutti.
La Quarantena Post-Vaccino: Cambiano le Regole per i Lavoratori
Fino al termine del 2021, la quarantena dovuta al contatto con soggetti positivi al COVID-19 era considerata, ai fini legali e burocratici, equivalente a un periodo di malattia.
Questa equiparazione permetteva ai lavoratori di ricevere un’indennità dall’INPS durante l’isolamento.
Una misura che ha rappresentato un sostegno significativo per i lavoratori durante i mesi più critici della pandemia, garantendo loro protezione economica in un periodo di grande incertezza.
Oggi, la situazione si è evoluta. La campagna vaccinale ha raggiunto ampie fasce della popolazione e ha contribuito a ridurre l’impatto del virus sul sistema sanitario nazionale.
Di conseguenza, le normative relative alla quarantena e al trattamento economico dei lavoratori in isolamento hanno subito delle modifiche sostanziali.
In questo nuovo contesto, la quarantena non viene più automaticamente assimilata a malattia.
La decisione riflette una nuova fase della gestione della pandemia, in cui le misure di contenimento si adattano a una realtà in cui il virus, pur presente, incide meno gravemente sulla salute pubblica grazie all’efficacia dei vaccini.
Questo cambiamento normativo solleva importanti questioni sul piano dei diritti dei lavoratori e della sicurezza sul luogo di lavoro.
Da un lato, c’è la necessità di continuare a proteggere la salute pubblica senza gravare eccessivamente sulle spalle dei lavoratori.
Dall’altro, vi è l’esigenza di bilanciare tali misure con la sostenibilità finanziaria degli enti previdenziali, in un periodo in cui l’economia cerca di riprendersi dagli effetti prolungati della crisi sanitaria.
Infatti, il lavoratore che per rischio di contagio decida di isolarsi, può alternativamente:
- svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, laddove presente un accordo tra le parti;
- richiedere che il periodo di assenza imputabile a quarantena possa essere considerato come “permesso” o “ferie”. Si ricorda infatti come, ad oggi, non sia più prevista alcuna misura restrittiva non confronti dei soggetti che siano entrati a contatto con casi accertati di COVID-19. Chiaramente è bene probabile che un lavoratore positivo ma asintomatico (dato che se manifestasse sintomi verosimilmente dovrà essere considerato, previa certificazione medica, in malattia) non sarà sicuramente “contento” di essere considerato in ferie e potrebbe dunque chiedere di essere re introdotto nel normale ciclo produttivo, munto di mascherine e sistemi adeguati. In tal senso il documento di valutazione dei rischi potrebbe determinare a priori l’esclusione del re inserimento fino a guarigione clinica del solerte lavoratore.
Parimenti, anche nei confronti dei soggetti affetti da COVID-19 non vengono previste misure differenti rispetto agli eventi di malattia “ordinaria”: il lavoratore sarà quindi tenuto ad avvisare il proprio medico ai fini del rilascio di un certificato di malattia, con piena rilevanza ai fini del comporto.
La Persistente Eccezione: COVID-19 e la Tutela dei Lavoratori Pubblici
In un panorama legislativo in rapido mutamento, dove la normativa riguardante il COVID-19 viene costantemente aggiornata, emerge una disposizione che rimane saldamente in vigore: l’articolo 87, comma 1, del Decreto Legge 18/2020.
Questo articolo, nonostante le evoluzioni nella gestione della pandemia, continua a riconoscere il contagio da COVID-19 come evento paragonabile al ricovero ospedaliero per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche, come definite dall’articolo 1, comma 2, del Decreto Legislativo 165/2001.
Questa disposizione ha una portata significativa: essa stabilisce che, per i lavoratori del settore pubblico affetti da COVID-19, il periodo di assenza dal lavoro dovuto alla malattia non incide sul periodo di comporto, ovvero quel lasso di tempo oltre il quale l’assenza per malattia può comportare la risoluzione del rapporto di lavoro.
La specificità di questa tutela solleva questioni di equità e coerenza nel trattamento dei lavoratori pubblici rispetto a quelli del settore privato.
In un momento in cui la società cerca di bilanciare la protezione della salute pubblica con la necessità di una ripresa economica, la distinzione tra settore pubblico e privato nel contesto delle assenze per COVID-19 potrebbe richiedere una riflessione più approfondita.
In ogni caso, al di là delle specifiche regole emanate nell’ultimo triennio per contrastare la pandemia da COVID-19, si ritiene quale regola generale cui i lavoratori sono chiamati ad attenersi quanto previsto dall’art. 20 D.Lgs. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro.
Infatti, il Legislatore prevede che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quelle delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni […]”. Banalmente, essere positivi e non proferirlo, è condotta da censurarsi.
Salute e Sicurezza sul Lavoro: Responsabilità Individuale e Collettiva nell’Era Post-COVID
Nell’ultimo triennio, numerose sono state le normative introdotte per mitigare l’impatto del virus, tuttavia, al di là di queste misure straordinarie, persiste una regola generale che tutti i lavoratori sono tenuti a rispettare: quella prevista dall’articolo 20 del Decreto Legislativo 81/2008.
Questo articolo rappresenta un pilastro nella legislazione italiana in materia di sicurezza sul lavoro, sottolineando la responsabilità di ogni lavoratore di prendersi cura non solo della propria salute e sicurezza ma anche di quella dei colleghi.
In un momento storico in cui la sensibilità verso le tematiche di salute pubblica è elevata, il Legislatore ribadisce che le azioni o le omissioni di ciascun individuo possono avere ripercussioni significative sull’ambiente lavorativo e sulla collettività.
La pandemia ha reso questa responsabilità ancora più tangibile.
La condotta di un lavoratore positivo al COVID-19 che ometta di comunicare la propria condizione può essere considerata non solo una violazione delle norme aziendali ma anche un atto di negligenza nei confronti della collettività.
La trasparenza e la comunicazione diventano, quindi, comportamenti essenziali per garantire un ambiente di lavoro sicuro e proteggere la salute pubblica.
L’articolo in questione ci ricorda che, mentre le politiche aziendali e le misure governative hanno un ruolo fondamentale nel contrastare i rischi per la salute, la sicurezza sul luogo di lavoro è anche una questione di responsabilità individuale.
Ogni lavoratore è chiamato a essere parte attiva nella prevenzione, adottando comportamenti consapevoli e rispettosi delle normative e del benessere comune.
La sentenza n. C-206/22 del 14 dicembre 2023
La sentenza n. C-206/22 del 14 dicembre 2023 è stata emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Questa sentenza ha stabilito che, nel caso in cui un lavoratore venga messo in quarantena da un’autorità pubblica, il datore di lavoro non deve compensare gli svantaggi derivanti da tale evento, che è imprevedibile e non preventivabile.
La sentenza ha chiarito che la quarantena del lavoratore non è paragonabile alla malattia.
Inoltre, ha stabilito che la quarantena non impedisce al dipendente di beneficiare pienamente del suo diritto alle ferie annuali.
Questo diritto è espressamente sancito dall’art. 31, § 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e l’art. 7, § 1, della direttiva Ce 2003/88 attua tale diritto fissandone la durata in almeno quattro settimane.
La causa è stata portata alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea dal Tribunale del lavoro di Ludwigshafen sul Reno, in Germania.
Il caso riguardava un lavoratore, identificato come TF, che era stato messo in quarantena dal 2 all’11 dicembre 2020, dopo essere stato in contatto con una persona infetta dal virus SARS-CoV-2. TF aveva chiesto il riporto dei giorni di ferie annuali retribuite concessi per il periodo coincidente con il periodo di quarantena a cui era stato sottoposto.
In sintesi, la sentenza ha stabilito che la quarantena non ostacola il diritto del lavoratore alle ferie annuali e che il datore di lavoro non è tenuto a compensare gli svantaggi derivanti dalla quarantena.
Attualmente, la quarantena non viene considerata alla stregua di una malattia.
Infatti, secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il periodo di isolamento non preclude al lavoratore la possibilità di dedicarsi al proprio tempo libero, al riposo o ad altre attività non lavorative.
Di conseguenza, sebbene inizialmente si riteneva necessario fornire protezioni simili a quelle previste per le malattie anche ai casi di quarantena preventiva, ora non vi è più alcuna ragione valida per mantenere tale equiparazione con la condizione di contagio effettivo da COVID-19.
Nei casi accertati di infezione da COVID-19 avvenuta sul luogo di lavoro, l’evento morboso verrà equiparato non più a malattia ma ad infortunio e, per tale ragione, il datore di lavoro sarà tenuto ad adempiere agli ordinari obblighi previsti in questo caso (es. certificato di infortunio e denuncia dello stesso all’INAIL).
La Qualificazione dell’Infezione da COVID-19 come Infortunio sul Lavoro: Il Ruolo del Nesso Causale
La pandemia di COVID-19 ha sollevato questioni complesse in merito alla sicurezza sul lavoro e alla tutela degli infortuni professionali. Un aspetto di particolare rilevanza è la qualificazione dell’infezione da coronavirus come infortunio sul lavoro, un tema che ha generato ampio dibattito sia nel contesto legale che in quello assicurativo.
Al centro della questione vi è l’identificazione di un “nesso causale” tra l’attività lavorativa e la contrazione del virus.
Perché un evento possa essere riconosciuto come infortunio sul lavoro, è indispensabile che esista una connessione diretta tra l’esposizione al rischio nell’ambiente lavorativo e l’insorgere della malattia.
Questo collegamento deve essere supportato da un giudizio di ragionevole probabilità, indipendentemente da eventuali questioni di responsabilità del datore di lavoro.
Il riconoscimento dell’origine professionale del contagio da COVID-19 è quindi fondamentale per accedere alle tutele previste in caso di infortuni.
Tuttavia, la valutazione del nesso causale non implica un giudizio sulla condotta del datore di lavoro, il quale può aver rispettato tutti i protocolli di sicurezza senza essere in grado di prevenire ogni possibile contagio.
La distinzione tra responsabilità e causalità è un punto chiave per comprendere le dinamiche che regolano il riconoscimento degli infortuni sul lavoro legati al COVID-19.
Mentre le aziende sono chiamate a garantire la massima sicurezza e a seguire i protocolli sanitari, i lavoratori devono essere consapevoli che non ogni contagio avvenuto può essere automaticamente considerato un infortunio legato all’attività lavorativa.
La pandemia ha quindi messo in luce la necessità di un approccio dettagliato e specifico per la gestione dei casi di contagio sul luogo di lavoro, sottolineando l’importanza di una valutazione attenta del nesso causale per la qualificazione degli eventi come infortuni.
Uno sguardo al futuro
Per il futuro, si prevede un nuovo aumento di iniziative di lavoro agile, anche nelle pubbliche amministrazioni, grazie ai benefici organizzativi e competitivi che le aziende che avevano già adottato lo smart working hanno potuto consolidare.
Il futuro dello smart working sarà probabilmente caratterizzato da modelli di lavoro ibridi, in cui i dipendenti si dividono tra il lavoro da casa e il lavoro in ufficio.
Questo modello offre flessibilità ai dipendenti e può contribuire a un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata. Consente inoltre alle aziende di ridurre gli spazi degli uffici e i relativi costi.
Si prevede che l’integrazione di strumenti avanzati, come la realtà aumentata e quella virtuale, creerà esperienze coinvolgenti di lavoro a distanza, rendendo la collaborazione più efficace e coinvolgente.
Si prevede inoltre che le aziende investano nella riqualificazione dei lavoratori per dotarli delle competenze necessarie per il posto di lavoro digitale6.In conclusione, il futuro dello smart working coinvolgerà probabilmente un mix di lavoro in ufficio e lavoro a distanza, reso possibile da tecnologie avanzate e caratterizzato da una maggiore attenzione al benessere dei dipendenti.
Inoltre, la pandemia ha servito come un’occasione per introdurre lo smart working in molte PA, dove progetti strutturati o informali sono presenti nel 67% delle organizzazioni.
La pandemia ha trasformato il panorama del lavoro, rendendo lo smart working una componente più integrata e accettata nelle pratiche lavorative, nonostante le sfide che ancora persistono.