Videosorveglianza nell’impresa, quando è possibile senza autorizzazione
di Francesco Machina Grifeo
16 Novembre 2023
La Cassazione, sentenza n. 46188 depositata oggi, traccia i limiti di utilizzo delle telecamere in mancanza di accordo sindacale
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Nessuna condanna penale per l’installazione non autorizzata di un impianto di videosorveglianza all’interno della impresa – nel caso un bar – se non viene anche provato che vi lavorano dei dipendenti e che le telecamere sono idonee ad un penetrante controllo dell’attività lavorativa. Ma l’azione è scriminata anche quando le telecamere sono nascoste per consentire l’accertamento di “gravi violazioni”. La Cassazione, sentenza n. 46188 depositata oggi, accogliendo il ricorso di una piccola esercente condannata dal Tribunale di Messina alla pena di 3mila euro di ammenda, ricapitola le regole in materia di videosorveglianza e controllo dei lavoratori.
Nel ricorso la donna aveva lamentato che la decisione mancava di due indicazioni fondamentali, e cioè: se l’impianto era preposto alla registrazione e se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. Ebbene, deduceva, l’impianto era a circuito chiuso e non implicava alcuna registrazione mentre l’azienda non aveva dipendenti.
La Terza sezione penale ricorda che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza “è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato”. Il reato, prosegue, sulla base di quanto previsto dall’articolo 15 Dlgs 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell’articolo 4, comma 1, legge 20 maggio 1970 n. 300, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori».
Mentre, continua la sentenza, non è configurabile la violazione (di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 – tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 Dlgs n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018) “quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente riservato per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
La sentenza impugnata, osserva la Cassazione, è lacunosa sotto entrambi i profili considerato che il Tribunale di merito si è limitato a dare atto che nel bar erano stati installati un monitor e cinque telecamere in difetto di espressa autorizzazione, “senza però precisare né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
Una valutazione che ora dovrà fare il tribunale del rinvio.
Nessuna condanna penale per l’installazione non autorizzata della videosorveglianza se non c’è prova del controllo dei lavoratori
Nessuna condanna penale per l’installazione non autorizzata di un impianto di videosorveglianza all’interno della impresa – nel caso un bar – se non viene anche provato che vi lavorano dei dipendenti e che le telecamere sono idonee ad un penetrante controllo dell’attività lavorativa. Ma l’azione è scriminata anche quando le telecamere sono nascoste per consentire l’accertamento di “gravi violazioni”. La Cassazione, sentenza n. 46188/2023, accogliendo il ricorso di una piccola esercente condannata dal Tribunale di Messina alla pena di 3mila euro di ammenda, ricapitola le regole in materia di videosorveglianza e controllo dei lavoratori.
Nel ricorso la donna aveva lamentato che la decisione mancava di due indicazioni fondamentali, e cioè: se l’impianto era preposto alla registrazione e se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. Ebbene, deduceva, l’impianto era a circuito chiuso e non implicava alcuna registrazione mentre l’azienda non aveva dipendenti.
La Terza sezione penale ricorda che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza “è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato”. Il reato, prosegue, sulla base di quanto previsto dall’articolo 15 Dlgs 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell’articolo 4, comma 1, legge 20 maggio 1970 n. 300, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti «dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori».
Mentre, continua la sentenza, non è configurabile la violazione (di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 – tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 Dlgs n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018) “quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente riservato per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
La sentenza impugnata, osserva la Cassazione, è lacunosa sotto entrambi i profili considerato che il Tribunale di merito si è limitato a dare atto che nel bar erano stati installati un monitor e cinque telecamere in difetto di espressa autorizzazione, “senza però precisare né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
Una valutazione che ora dovrà fare il tribunale del rinvio.
Fonte: Il Sole 24 Ore – di Francesco Machina Grifeo
Impianto audiovisivo non autorizzato: è reato solo se ci sono lavoratori
Assolta la titolare di un bar che non è anche datore di lavoro
di Mario Gallo
06 Dicembre 2023
La disciplina in materia di controllo a distanza dei lavoratori ha subito nel corso del tempo importanti cambiamenti. In particolare, per effetto delle modifiche introdotte all’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), prima dall’articolo 23, comma1, del Dlgs 151/2016, e poi dall’articolo 5, comma 2, del Dlgs 185/2016, gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti, dai quali derivi anche la possibilità di effettuare un controllo a distanza dell’attività svolta dalle lavoratrici e dai lavoratori, possono essere impiegati solo per determinate esigenze. La legittimità, infatti, è riconosciuta esclusivamente nei casi in cui l’installazione sia giustificata da motivi di carattere organizzativo e produttivo, per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e per la protezione del patrimonio aziendale.
Al tempo stesso, è stato rimodulato anche il regime autorizzativo: l’installazione delle telecamere nei luoghi di lavoro può avvenire solo, in via prioritaria, previo accordo da parte del datore di lavoro con la Rsu o Rsa, e nel caso di aziende con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La stessa norma, poi, mantiene fermo che in mancanza di tale accordo collettivo è necessaria l’autorizzazione rilasciata dal competente Ispettorato territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl, nota 2572/2023).
Considerata, quindi, la primaria funzione di garanzia di tale disciplina, come si ricava dal combinato disposto degli articoli 4 e 38 della legge 300/1970 e 114 e 171 del Dlgs 196/2003, il legislatore ha qualificato l’installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali o l’autorizzazione rilasciata preventivamente dall’Ispettorato del lavoro come ipotesi di reato di pericolo.
E proprio su tale disciplina la Cassazione, con sentenza 46188/2023 della terza sezione penale, è ritornata affrontando la vicenda che ha visto coinvolta la titolare di un bar che aveva installato nel proprio esercizio commerciale un impianto di videosorveglianza in assenza delle prescritte autorizzazioni; per tale motivo il Tribunale l’aveva ritenuta responsabile del reato in questione. L’esercente ha proposto ricorso per cassazione censurando l’operato dei giudici di merito; in particolare, ha lamentato che nella sentenza non si è tenuto conto né se l’impianto fosse preposto alla registrazione, né se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno.
La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso precisando due importanti elementi; il primo, è che la presenza di lavoratori nel luogo in cui è installato l’impianto di videosorveglianza «è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato». Infatti, l’articolo 4 della legge 300/1970 è norma diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Inoltre, precisano ancora i giudici di legittimità, sulla base del principio enunciato in giurisprudenza non è configurabile la violazione della norma in questione «quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».
Sotto entrambi tali profili, quindi, la sentenza impugnata è stata ritenuta del tutto lacunosa; infatti, nella stessa il Tribunale si è limitato solo a dare atto che, nel bar dell’imputata, erano stati installati un monitor e cinque telecamere senza alcuna autorizzazione, ma non ha precisato «né se nell’esercizio commerciale prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».
Pertanto, Cassazione ha ritenute fondate le censure dell’imputata e ha disposto, così, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Impianto audiovisivo non autorizzato: è reato solo se ci sono lavoratori
Assolta la titolare di un bar che non è anche datore di lavoro
di Mario Gallo
06 Dicembre 2023
La disciplina in materia di controllo a distanza dei lavoratori ha subito nel corso del tempo importanti cambiamenti. In particolare, per effetto delle modifiche introdotte all’articolo 4, comma 1, della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), prima dall’articolo 23, comma1, del Dlgs 151/2016, e poi dall’articolo 5, comma 2, del Dlgs 185/2016, gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti, dai quali derivi anche la possibilità di effettuare un controllo a distanza dell’attività svolta dalle lavoratrici e dai lavoratori, possono essere impiegati solo per determinate esigenze. La legittimità, infatti, è riconosciuta esclusivamente nei casi in cui l’installazione sia giustificata da motivi di carattere organizzativo e produttivo, per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e per la protezione del patrimonio aziendale.
Al tempo stesso, è stato rimodulato anche il regime autorizzativo: l’installazione delle telecamere nei luoghi di lavoro può avvenire solo, in via prioritaria, previo accordo da parte del datore di lavoro con la Rsu o Rsa, e nel caso di aziende con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La stessa norma, poi, mantiene fermo che in mancanza di tale accordo collettivo è necessaria l’autorizzazione rilasciata dal competente Ispettorato territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl, nota 2572/2023).
Considerata, quindi, la primaria funzione di garanzia di tale disciplina, come si ricava dal combinato disposto degli articoli 4 e 38 della legge 300/1970 e 114 e 171 del Dlgs 196/2003, il legislatore ha qualificato l’installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali o l’autorizzazione rilasciata preventivamente dall’Ispettorato del lavoro come ipotesi di reato di pericolo.
E proprio su tale disciplina la Cassazione, con sentenza 46188/2023 della terza sezione penale, è ritornata affrontando la vicenda che ha visto coinvolta la titolare di un bar che aveva installato nel proprio esercizio commerciale un impianto di videosorveglianza in assenza delle prescritte autorizzazioni; per tale motivo il Tribunale l’aveva ritenuta responsabile del reato in questione. L’esercente ha proposto ricorso per cassazione censurando l’operato dei giudici di merito; in particolare, ha lamentato che nella sentenza non si è tenuto conto né se l’impianto fosse preposto alla registrazione, né se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno.
La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso precisando due importanti elementi; il primo, è che la presenza di lavoratori nel luogo in cui è installato l’impianto di videosorveglianza «è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato». Infatti, l’articolo 4 della legge 300/1970 è norma diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Inoltre, precisano ancora i giudici di legittimità, sulla base del principio enunciato in giurisprudenza non è configurabile la violazione della norma in questione «quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».
Sotto entrambi tali profili, quindi, la sentenza impugnata è stata ritenuta del tutto lacunosa; infatti, nella stessa il Tribunale si è limitato solo a dare atto che, nel bar dell’imputata, erano stati installati un monitor e cinque telecamere senza alcuna autorizzazione, ma non ha precisato «né se nell’esercizio commerciale prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».
Pertanto, Cassazione ha ritenute fondate le censure dell’imputata e ha disposto, così, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Corte di Cassazione|Sezione 3|Penale|Sentenza|16 novembre 2023| n. 46188
Data udienza 26 settembre 2023
Integrale
Controllo a distanza dell’attività dei lavoratori – Installazione di impianti audiovisivi – Artt. 4 e 38, L. n. 300/1970 – Art. 171, Dlgs n. 196/2003 – L. n. 101/2018 – Tutela del patrimonio aziendale – Significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti – Accertamento di gravi condotte illecite
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GALTERIO Donatella – Presidente
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere
Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere
Dott. CORBO Antonio – rel. Consigliere
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/04/2022 del Tribunale di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Antonio Corbo;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Pedicini Ettore, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, ritenendo fondato l’ultimo motivo di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 28 aprile 2022, il Tribunale di Messina ha dichiarato la penale responsabilita’ di (OMISSIS) per il reato di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 4 e la ha condannata alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda.
Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, (OMISSIS), in qualita’ di titolare di un bar, in data (OMISSIS), avrebbe installato un impianto di videosorveglianza senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge.
- Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale indicata in epigrafe (OMISSIS), con atto sottoscritto dall’avvocato (OMISSIS), articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, articolo 4 avendo riguardo alla ritenuta configurabilita’ della fattispecie di reato per la quale e’ stata pronunciata condanna.
Si deduce, in particolare, che non sono fornite indicazioni su due elementi centrali della fattispecie, perche’ non si da’ conto se l’impianto fosse preposto alla registrazione, ne’ se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. Si segnala che, anzi, l’impianto e’ a circuito chiuso e non implica alcuna registrazione, e che l’azienda non ha dipendenti. Si osserva, inoltre, che non vi sono elementi idonei ad affermare la coscienza e volonta’ del fatto illecito e che manca una effettiva valutazione critica della attendibilita’ del principale teste di accusa, (OMISSIS).
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia l’eccessivita’ della pena.
Si deduce che la stessa e’ sproporzionata, avendo riguardo al fatto contestato ed al contesto in cui lo stesso si e’ verificato.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia la mancata applicazione della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 131-bis c.p..
Si deduce che dovrebbe essere comunque riconosciuta la causa di non punibilita’ della particolare tenuita’ del fatto, per la modestia del danno e per la minima intensita’ del dolo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso e’ fondato in relazione alle censure esposte nel primo motivo, per le ragioni di seguito precisate, con assorbimento delle ulteriori doglianze.
- Le censure formulate nel primo motivo contestano la ritenuta configurabilita’ del reato, deducendo che non e’ indicato se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno, e che l’impianto era inidoneo ad effettuare registrazioni.
2.1. Per chiarezza, occorre una duplice precisazione di carattere generale.
Innanzitutto, va osservato che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza e’ requisito imprescindibile per la configurabilita’ del reato in contestazione. Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dal Decreto Legislativo 10 agosto 2018, n. 101, articolo 15 che costituisce la disposizione incriminatrice, e’ integrato dalla violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 4, comma 1, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti “dai quali derivi anche la possibilita’ di controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori”.
Va poi rilevato che, secondo un principio enunciato in giurisprudenza, non e’ configurabile la violazione della disciplina di cui alla L. n. 300 del 1970, articoli 4 e 38 – tuttora penalmente sanzionata in forza del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018 – quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attivita’ lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi (cosi’ Sez. 3, n. 3255 del 14/12/2020, dep. 2021, Wang Yong Kang, Rv. 280542-01).
2.2. La sentenza impugnata si presenta lacunosa sotto entrambi i profili.
La decisione del Tribunale di Messina, infatti, si limita a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, sebbene in difetto di espressa autorizzazione.
La pronuncia, pero’, non precisa ne’ se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio dei lavoratori subordinati di questa, ne’, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attivita’ lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessita’ di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
- La fondatezza delle censure sopra precisate impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Il Giudice del rinvio, che si individua nel Tribunale di Messina in diversa persona fisica, a norma di quanto previsto dall’articolo 623 c.p.p., comma 1, lettera d), valutera’ se debba o meno ritenersi sussistente il reato di cui alla L. n. 300 del 1970, articoli 4 e 38 e Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018, in particolare verificando se, nel bar gestito dall’imputata, prestassero servizio lavoratori subordinati, e, in caso affermativo, se l’impianto di videosorveglianza ivi posizionato implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attivita’ lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessita’ di tenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Messina, in diversa persona fisica.
APD/GBA (Belgio) – DOS-2023-04114
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APD/GBA – 154/2023
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Autorità: APD/GBA (Belgio)
Giurisdizione: Belgio
Legge pertinente: Articolo 5, paragrafo 1, lettera b) GDPR
Articolo 5, paragrafo 1, lettera c) GDPR
CLA n. 68 sulla videosorveglianza sul lavoro
Tipo: Rimostranza
Risultato: Accolto
Iniziato: 06.10.2023
Deciso: 23.11.2023
Pubblicato: 28.11.2023
Bene: n / a
Parti: n / a
Numero/Nome del caso nazionale: 154/2023
Identificatore della giurisprudenza europea: n / a
Appello: Sconosciuto
Lingua(e) originale(i): Olandese
Fonte originale: APD / GBA (in Paesi Bassi)
Collaboratore iniziale: Mattia Vandamme
L’autorità belga per la protezione dei dati ha ritenuto che la sorveglianza costante dei dipendenti di un negozio tramite CCTV violasse il principio di minimizzazione dei dati (articolo 5, paragrafo 1, lettera c), GDPR ), poiché la sorveglianza non era necessaria per il mantenimento della sicurezza.
Contenuti
1 Riepilogo inglese
1.1 Fatti
1.2 Presa
2 Commento
3 Ulteriori risorse
4 Traduzione automatica inglese della decisione
Riepilogo inglese
Fatti
Il 6 ottobre 2023, un dipendente (interessato) di un negozio ha presentato un reclamo alla DPA belga contro il suo datore di lavoro. Il datore di lavoro (controllore) aveva installato diverse telecamere di sorveglianza nei suoi sei negozi.
Nella denuncia, l’interessato ha affermato che le telecamere erano state installate in modo da tenere i dipendenti sotto costante sorveglianza, contrariamente allo scopo dichiarato delle telecamere, che era quello di garantire la sicurezza in caso di furto o aggressione.
L’interessato ha affermato di aver ricevuto regolarmente commenti dalla società di sicurezza in merito al proprio rendimento lavorativo. Nella denuncia l’interessato ha sostenuto che la sorveglianza violava il Contratto Collettivo di Lavoro (CLA) n. 68 (sulla tutela della privacy dei lavoratori per quanto riguarda la videosorveglianza sul posto di lavoro).
Presa
L’Autorità per la protezione dei dati belga ha ritenuto che la videosorveglianza violasse il principio di minimizzazione dei dati (articolo 5, paragrafo 1, lettera c), GDPR ) e il CLA n. 68.
In queste decisioni vengono fatti molti riferimenti al CLA 68 sulla videosorveglianza nei luoghi di lavoro. Si tratta di un contratto collettivo di lavoro importante per le aziende belghe del settore privato in quanto elenca i cinque scopi per i quali è consentita la sorveglianza tramite telecamera sul posto di lavoro:
Sicurezza e salute;
Tutela della proprietà;
Monitoraggio del processo produttivo (solo macchine);
Monitoraggio del processo produttivo (dipendenti);
Monitoraggio delle prestazioni dei dipendenti.
Il CLA precisa che per queste ultime due finalità la videosorveglianza non può essere continuativa. Pertanto, l’uso della sorveglianza continua da parte del titolare del trattamento violava il CLA n. 68.
Inoltre, lo scopo delle telecamere comunicate ai dipendenti era la sicurezza, non la valutazione delle prestazioni dei dipendenti. Di conseguenza, il monitoraggio continuo dei dipendenti non era necessario ai fini del mantenimento della sicurezza nei negozi e, come tale, costituiva una violazione dell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), GDPR .
L’Autorità per la protezione dei dati belga ha riconosciuto che la sorveglianza costituiva anche una violazione dell’articolo 8 della CEDU (diritto alla vita privata) e ha fatto riferimento al caso Antović e Mirković contro Montenegro della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) . Questo caso riguardava anche la sorveglianza CCTV sul posto di lavoro. In questo caso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che la videosorveglianza nascosta dei dipendenti sul posto di lavoro costituisse una notevole intrusione nella loro vita privata e quindi una violazione dell’articolo 8 della CEDU.
Di conseguenza, la DPA belga ha emesso un avvertimento al proprietario del negozio e ha raccomandato di adottare misure per informare adeguatamente i dipendenti sugli scopi della sorveglianza tramite telecamera.
Commento
Poiché si tratta di una decisione “prima facie”, non sono disponibili molte informazioni. Nella decisione l’Autorità per la protezione dei dati belga fa diversi riferimenti alla società di sorveglianza. Sottolinea che la società di monitoraggio è il responsabile del trattamento e il proprietario del negozio è il responsabile del trattamento. Devono quindi stipulare un accordo sul trattamento dei dati in cui il responsabile del trattamento viene istruito su come agire. Non è noto se esista un accordo del genere.
In questo caso, la DPA belga non si è occupata delle riprese dei clienti. Per completezza va osservato che deve essere rispettata anche la legge belga sulla fotocamera.
L’Autorità per la protezione dei dati slovena ha riscontrato che un titolare del trattamento non ha esposto il proprio avviso di videosorveglianza nei propri locali in modo tale da informare adeguatamente gli interessati della videosorveglianza. Di conseguenza, il responsabile del trattamento non aveva adempiuto ai propri obblighi di informazione previsti dal diritto nazionale.
Contenuti
Riepilogo inglesemodificaremodifica fonte
Fattimodificaremodifica fonte
L’Autorità per la protezione dei dati slovena ha effettuato un’indagine nei locali di un responsabile del trattamento, a seguito di una denuncia riguardante l’uso della videosorveglianza e la mancanza di un’adeguata notifica del suo utilizzo.
Il titolare del trattamento aveva i locali videosorvegliati. La videosorveglianza ha presentato un avviso informativo. Tuttavia, questo avviso non è stato posizionato in modo da consentire a una persona di essere informata della sorveglianza prima di entrare nei locali e di decidere se voleva trovarsi nell’area coperta dalla videosorveglianza.
Presamodificaremodifica fonte
L’Autorità per la protezione dei dati slovena ha ritenuto che il titolare del trattamento non avesse adempiuto al proprio obbligo di garantire che gli interessati fossero informati dell’uso della videosorveglianza da parte del titolare del trattamento. In quanto tale, il responsabile del trattamento aveva violato l’articolo 76, paragrafo 3, ZVOP-2 .
Il titolare del trattamento aveva esposto un’informativa per l’utilizzo della videosorveglianza. Tuttavia, questo avviso non è stato posizionato in modo da consentire a una persona di essere informata della sorveglianza prima di entrare nei locali e di decidere se voleva trovarsi nell’area coperta dalla videosorveglianza.
La DPA ha ritenuto che l’inserimento della notifica violasse l’ articolo 76, paragrafo 3, ZVOP-2 . Di conseguenza, la DPA ha ritenuto responsabile il titolare del trattamento sulla base dell’articolo 100, comma 3 ZVOP-2 in combinato disposto con l’articolo 100, comma 1, comma 2 ZVOP-2 e ha emesso un rimprovero.
Commentomodificaremodifica fonte
ZVOP-2 è l’implementazione nazionale slovena del GDPR.
L’articolo 76, paragrafo 3, ZVOP-2 stabilisce che il titolare del trattamento deve garantire che un avviso di videosorveglianza contenga le informazioni richieste dall’articolo 13 GDPR . Richiede inoltre una descrizione scritta o grafica inequivocabile del fatto che viene effettuata la videosorveglianza, delle finalità del trattamento, del nome del responsabile del sistema di videosorveglianza, di un numero di telefono o di un indirizzo e-mail o di un sito web. esercitare i diritti dell’interessato in materia di protezione dei dati personali, informazioni sull’impatto concreto del trattamento, in particolare l’ulteriore trattamento, i dettagli di contatto della persona autorizzata (numero di telefono o indirizzo e-mail) e informazioni su insoliti ulteriori trattamenti, come trasferimenti a soggetti di paesi terzi, monitoraggio dal vivo e possibilità di intervento audio in caso di monitoraggio dal vivo.
Ulteriori risorsemodificaremodifica fonte
La configurabilità del reato di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori
Autore: Gerardo Porreca
Categoria: Sentenze commentate
18/12/2023
Non è configurabile il reato di cui all’art. 4 della legge 300/1970 quando l’impianto audiovisivo, anche se installato senza autorizzazione, non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Non è configurabile la violazione della disciplina di cui alla legge n. 300 del 1970, artt. 4 e 38, tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti. Lo aveva già sostenuto la Corte di Cassazione in una precedente sentenza della stessa Sezione III, la n. 3255 del 27/01/2021, e così come allora la suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso presentato dalla titolare di un bar condannata dal Tribunale e ha annullata la sentenza con rinvio al Tribunale di provenienza giudicando la stessa lacunosa per essersi limitata a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, in difetto di espressa autorizzazione, e per non avere invece precisato se nell’esercizio commerciale dalla stessa gestito prestassero servizio dei lavoratori subordinati e se l’impianto di videosorveglianza implicasse, in ogni caso, un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti.
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Il fatto, il reato e la sentenza di condanna del Tribunale.
Il Tribunale ha dichiarata la penale responsabilità della titolare di un bar per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970 e l’ha condannata alla pena di euro 3.000 di ammenda. Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, la stessa avrebbe installato un impianto di videosorveglianza senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge. L’imputata ha quindi presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale, a mezzo del proprio legale difensore, articolando con tre motivi.
Con il primo motivo, ha denunciata violazione di legge, con riferimento alla legge n. 300 del 1970, art. 4 avendo riguardo alla ritenuta configurabilità della fattispecie di reato per la quale era stata pronunciata la condanna. Ha infatti dedotto, in particolare, che non fossero state fornite indicazioni su due elementi centrali della fattispecie, perché non si era dato conto se l’impianto fosse preposto alla registrazione, né se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno. L’impianto, infatti, era a circuito chiuso e non implicava alcuna registrazione e inoltre l’azienda non aveva dipendenti. Ha osservato, inoltre, che non vi erano stati elementi idonei ad affermare la coscienza e la volontà del fatto illecito e che inoltre era mancata una effettiva valutazione critica della attendibilità della principale teste di accusa.
Con le altre motivazioni la difesa ha denunciata l’eccessività della pena e dedotta che la stessa era stata sproporzionata, avendo riguardo al fatto contestato ed al contesto in cui lo stesso si è verificato e ha denunciata altresì la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. che si sarebbe dovuta comunque riconoscere per la modestia del danno e per la minima intensità del dolo.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso in relazione solo alla censura esposta nel primo motivo con la quale era stata contestata la ritenuta configurabilità del reato, deducendo che non fosse stato indicato se l’imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno, e che l’impianto fosse inidoneo ad effettuare registrazioni.
Innanzitutto, va osservato, ha così sostenuto la suprema Corte, che la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione. Invero, detto reato, sulla base di quanto previsto dall’art. 15 del D. Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione della legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, comma 1, previsione a sua volta diretta a regolamentare l’uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
Ha poi rilevato la stessa Corte che, secondo un principio enunciato in giurisprudenza, non è configurabile la violazione della disciplina di cui alla legge n. 300 del 1970, artt. 4 e 38, tuttora penalmente sanzionata in forza dell’art. 171 del D. Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2018, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi, citando come precedente espressione in tal senso quella contenuta nella sentenza n. 3255 del 27/01/2021 della Sezione III, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “La regolarità dei dispositivi di videosorveglianza nei luoghi di lavoro”.
La sentenza del Tribunale, secondo la Corte suprema, si è presentata lacunosa in quanto si è limitata a dare atto che, nel bar di cui l’imputata era titolare, erano stati installati un monitor e cinque telecamere, in difetto di espressa autorizzazione, ma non era stato precisato nella stessa né se nell’esercizio commerciale gestito dall’imputata prestassero servizio suoi lavoratori subordinati, né, in ogni caso, se l’impianto di videosorveglianza implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di mantenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
La fondatezza della censura sopra precisata ha imposto quindi l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di provenienza affinché lo stesso valutasse, in diversa persona fisica a norma di quanto previsto dall’art. 623 c.p.p., comma 1, lett. d), se dovesse o meno ritenersi sussistente il reato di cui alla L. n. 300 del 1970, artt. 4 e 38 e D. Lgs. n. 196 del 2003, art. 171 come modificato dalla L. n. 101 del 2018, in particolare verificando se, nel bar gestito dall’imputata, prestassero servizio lavoratori subordinati, e, in caso affermativo, se l’impianto di videosorveglianza ivi posizionato implicasse un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti e non vi fosse la necessità di tenerlo “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
Gerardo Porreca
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ARTICOLO 1
Riflessioni sulla giurisprudenza del lavoro e della sicurezza sociale
Avv Massimiliano Magnanelli
Senior Associate Lawyer presso Studio Legale Magnanelli and Partners
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Il Tribunale di Roma sentenzia su violazione art 4 st.lav., vizi del patto di prova e licenziamento orale.
Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro ed in composizione monocratica , all’esito dell’udienza del 30/11/2023, ha sentenziato a seguito del ricorso ritualmente notificato, contenente la richiesta di accoglimento delle seguenti conclusioni:
A) accertare e dichiarare che la ricorrente dal 1.1.2021 al 17.01.2021 durante i suoi turni di lavoro alle dipendenze datore. presso la scuderia è stata illegittimamente sottoposta a sorveglianza audio visiva ,in assenza delle condizioni previste dall’art. 4 della legge 300/1970 così come novellato dal d.lgs. n. 151/2015, ed ha conseguentemente subito gravi danni alla dignità, alla privacy e alla salute; per l’effetto condannare la resistente. a risarcirla per tutti i danni alla privacy, alla dignità, alla libertà e alla salute dalla stessa subiti, da liquidarsi equitativamente;
B) accertare e dichiarare, per le ragioni di cui al presente ricorso, la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato ., o in subordine la sostituzione automatica della durata del patto con quella prevista da uno dei due ccnl di cui in narrativa;
C) accertare e dichiarare altresì la nullità e/o l’inefficacia ex art. 2 comma 1, d.lgs. 23/2015 dell’atto di licenziamento del 25.01.2021 e ordinare la reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro, nonché condannare altresì la medesima resistente al risarcimento del danno subito stabilendo a tal fine un’indennità, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari a € 1500, nette, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
In via subordinata alla conclusione di cui al punto C) accogliere una delle seguenti conclusioni da intendersi ognuna gradatamente subordinata a quella che subito precede:
C1) accertata l’insussistenza del fatto materiale contestato alla ricorrente, o comunque l’inesistenza giuridica della ragione posta a base del medesimo, annullare ex art. 3, comma 2, il licenziamento del 25.02.2021 e condannare il datore di lavoro, alla reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro e al pagamento in favore della medesima ricorrente di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, ( pari a € 1.500.00 nette) o nella diversa misura ritenuta di giustizia, e condannare altresì la resistente al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione;
C2) accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, dichiarare ex art. 3 comma del d.lgs 23/2015 estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento del 25.02.2021 e condannare il datore al pagamento in favore della ricorrente di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, nella misura ritenuta di giustizia, e comunque non inferiore a sei e non superiore trentasei mensilità dell’ultima retribuzione (pari a 1.500.00 euro nette) di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto o, eventualmente, nella misura ancora inferiore di cui all’art. 9 dello stesso d.lgs. 23/2015;
C3) accertare che il licenziamento è stato intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento del 25.02.2021 e condannare il datore al pagamento in favore della ricorrente di un’indennità, nella misura ritenuta di giustizia, non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (pari a e 1.500.00 euro nette) non assoggettata a contribuzione previdenziale o in ulteriore subordine nella misura prevista dall’art. 9 del d.lgs. 23/2015.
La ricorrente si riservava ogni azione per il pagamento di tutte le somme arretrate a lei dovute, per ogni titolo contrattuale e di legge, ovvero a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, per differenze retributive, per i sistematici straordinari svolti e non pagati, differenze di tredicesima e quattordicesime, permessi e ferie non goduti e il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti”.
A sostegno di tali conclusioni la ricorrente ha dedotto di aver stipulato nel luglio del 2018 un contratto di lavoro subordinato full time a tempo indeterminato con la società cooperativa a r.l. con formale inquadramento come di addetta alla manutenzione e pulizia dei giardini e con assegnazione alla sede della medesima cooperativa.
Ha quindi allegato di avere poi sottoscritto nell’ottobre del 2020 una conciliazione e di essere stata successivamente assunta alle dipendenze di diverso datore, rapporto di lavoro subordinato terminato in data 25 febbraio 2021 in esito a licenziamento.
Relativamente al rapporto di lavoro subordinato dedotto in giudizio la ricorrente ha sostenuto: – di essere stata quotidianamente sottoposta a videosorveglianza in assenza delle condizioni di legge di cui all’art. 4 della legge 300/1978 e in violazione dell’art. 2087 c.c., fatto da cui sarebbe derivata una sindrome ansioso depressiva di tipo reattivo; – di essere stata assunta con patto di prova in data 1 gennaio 2021 e licenziata senza neppure ricevere una comunicazione orale e di aver appreso detta circostanza “solo in esito alla nota inviata al suo legale”. Relativamente al licenziamento la ricorrente lamentava la nullità del patto di prova con conseguente illegittimità del licenziamento oltre alla nullità e/o inefficacia dello stesso. .
Si è costituita in giudizio il datore di lavoro, eccependo ‘inammissibilità del ricorso e contestandone radicalmente la fondatezza, in fatto ed in diritto. La causa veniva istruita con prove documentali, quindi veniva espletata CTU medico legale.
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Il Tribunale di Roma ricorda che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 13747/2004 e successive conformi) occorre attenersi al “processo di mutamento della motivazione (nel senso di una sua semplificazione- schematizzazione).. e di semplificazione del linguaggio istituzionale, in coincidenza ad una presunzione di legittimità delle attività degli organi istituzionali e con uno speculare obbligo di contestazione della stessa da parte dei suoi destinatari”. Con la conseguenza che il giudicante non deve arrivare ad estrinsecare la “specifica individuazione delle fonti probatorie ritenute idonee a suffragare la ricostruzione fattuale operata”, ma ben adempie al proprio obbligo semplicemente con l’”attestare di avere compiuto le predette operazioni con una formula sintetica.. la quale attesti che i fatti (da lui individuati) hanno trovato riscontro nell’istruttoria documentale e/ testimoniale”.
E’ ben consentito, dunque, anche al giudice adempiere al proprio obbligo di motivazione con l’enunciazione sintetica delle fonti del proprio convincimento in ordine alla ricostruzione dei fatti storici ritenuti rilevanti ai fini della decisione.
I fatti storici rilevanti ai fini della decisione sono documentalmente provati oppure non sono contestati, come ora si chiarirà. In apertura, è opportuno precisare che il presente giudizio ha per oggetto esclusivamente il rapporto di lavoro intercorso tra la ricorrente e la ultima società, iniziato il 1 gennaio 2021.
Sulla videosorveglianza dal primo capo di domanda, la ricorrente ha lamentato di essere stata, dal 27.7.2018 al 17.01.2021, quotidianamente sottoposta a videosorveglianza in assenza delle condizioni di legge di cui all’art. 4 della legge 300/1978 (così come novellato dal d. lgs. 151/2015) e, comunque, senza che vi sia stato un previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali o delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e senza autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
La ricorrente ha anche precisato di non avere mai ricevuto adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli ai quali è stata di fatto sottoposta. In particolare, ha chiarito che nella scuderia, fin dal luglio 2018, vi erano installate 8 telecamere attraverso le quali lei stessa e gli altri suoi colleghi di lavoro venivano video sorvegliati durante ‘intera giornata lavorativa.
Dall’anno 2020, quantomeno fino al 17 gennaio 2021, secondo la sua esposizione, fu attivato anche il microfono delle suddette 20 telecamere che dunque registravano anche i segnali audio, le voci, i rumori e le conversazioni circostanti. l’assunto sostenuto in ricorso, la resistente videosorvegliando la ricorrente, oltre a ledere la sua libertà, la sua dignità e la sua privacy avrebbe palesemente violato gli obblighi sulla stessa gravanti ai sensi dell’art. 2087 c.c. cagionando alla signora anche una sindrome ansioso depressiva di tipo reattivo, come risultante dalla certificazione medica specialistica che il 17 gennaio 2021 le aveva prescritto trenta giorni di riposo assoluto. Pertanto la ricorrente dal 18 gennaio 2021 si è assentata dal lavoro per ragioni di salute.
Tanto premesso, osserva il giudice intanto che, dal punto di vista storico, la censura correlata all’illecito utilizzo dei sistemi di videosorveglianza può e deve essere valutata solo per quanto concerne il periodo compreso tra l’1 gennaio 2021 e il 17 gennaio 2021, giorni di presenza effettiva della ricorrente sui luoghi di lavoro.
Quanto all’esistenza di tale sistema di videosorveglianza, la parte resistente non contesta la sussistenza di tale impianto, ma ne giustifica le ragioni chiarendo che la stessa aveva quale unico scopo la tutela della incolumità personale dei soggetti che vivono all’interno della proprietà, unitamente alla salvaguardia del patrimonio aziendale, senza che il sistema comportasse alcuna possibilità di verificare l’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Pertanto, poste le caratteristiche proprie dell’attività di videosorveglianza sopra indicate, l’assenza di accordo con i sindacati non influirebbe, ad avviso della società, sulla legittimità dell’attività svolta, essendo la stessa preordinata alla esclusiva tutela del patrimonio aziendale nel rispetto del corretto bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia della dignità e della riservatezza del dipendente e quelle di protezione del datore di lavoro.
Osserva il giudicante che le circostanze dedotte dalla società non sono tali da poter ritenere infondata la richiesta attorea. ,occorre infatti ricordare che l’art. 4 della legge n. 300/1970, nel testo vigente, prevede:
Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilita’ di controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unita’ produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in piu’ regioni, tale accordo puo’ essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente piu’ appresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unita’ produttive dislocate negli ambiti di competenza di piu’ sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettoratonazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi”.
La norma è quindi chiarissima nel disporre che gli impianti audiovisivi dai quali deriva anche la possibilita’ di controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori , possono essere legittimamente utilizzati sono in presenza di due condizioni concorrenti: una condizione causale giustificativa (esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale) ed una di garanzia negoziale sindacale ( previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali).
Ora, nel caso di specie, dalle stesse deduzioni di parte resistente si evince che, anche a voler escludere che gli impianti siano stati installati con la finalità di controllare i dipendenti, certamente appare chiaro che dai medesimi può senz’altro scaturire un controllo a distanza.
Ora, nel caso di specie, dalle stesse deduzioni di parte resistente si evince che, anche a voler escludere che gli impianti siano stati installati con la finalità di controllare i dipendenti, certamente appare chiaro che dai medesimi può senz’altro scaturire un controllo a distaza del lavoro del personale.
Infatti, la circostanza specifica dedotta in ricorso per cui “nella scuderia, fin dal luglio 2018, vi erano infatti installate n. 8 telecamere attraverso le quali la ricorrente e i suoi colleghi di lavoro venivano videosorvegliati durante l’intera giornata lavorativa. Dall’anno 2020, quantomeno fino al 17 gennaio 2021, fu attivato anche il microfono delle suddette telecamere che dunque registravano anche i segnali audio, le voci, i rumori e le conversazioni circostanti le stesse” non è stata specificatamente contestata dalla resistente ma anzi ammessa (“..l’impianto audiovisivo seppur installato in un luogo in cui si svolge anche attività lavorativa”).
Per conseguenza, se le telecamere erano posizionate nella scuderia, e se la ricorrente era addetta a mansioni di cura dei cavalli, non vi è dubbio che le 8 telecamere potessero riprenderla durante il suo lavoro. Pertanto, l’attività di videosorveglianza posta in essere dalla società è illegittima perché svolta in violazione dell’art. 4 della legge 300/1978, senza che vi sia stato un previo accordo collettivo e senza autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Sul risarcimento dei danni a fronte di tale condotta inadempitiva degli obblighi di legge posta in essere dalla resistente, la ricorrente ha lamentato di avere subito gravi danni alla dignità, alla privacy e alla salute; per l’effetto, ha chiesto condannarsi il datore a risarcirla per tutti i danni subiti, da liquidarsi equitativamente.
Quanto alla domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno alla salute patito, il giudice ha nominato un proprio ausiliario ai fini dell’espletamento di una perizia medico-legale. Ebbene, il CTU nominato ha concluso la propria indagine nei termini che seguono in assenza di terapie protratte nel tempo immediatamente successivo al periodo di malattia, ed in considerazione dei riscontri attuali, si ritiene che tale condizione patologica si sia risolta nel termine dei giorni di prescrizione, trenta, e non abbia causato postumi tali da determinare la sussistenza di un danno biologico permanente”.
Pertanto, non riscontrandosi alcun danno biologico correlato eziologicamente all’azione inadempitiva datoriale, non vi sono margini di risarcibilità del danno alla salute.
Quanto alle ulteriori voci di danno richieste, cioè alla dignità e alla privacy, come chiarito dal noto arresto della Corte di cassazione n. 7513/2018, le medesime sono definibili come le offese a beni giuridici a carattere non patrimoniale insuscettibili di apprezzamento medico-legale, e va ricordato che si tratta di pregiudizi che possono ricevere autonoma valutazione e riparazione purché sia allegato e provato il danno nella sua effettiva consistenza.
Difatti, nell’attuale sistema ordinamentale, il sistema risarcitorio, anche del danno non patrimoniale, risponde ad una logica prettamente riparatoria e compensativa, e non sanzionatoria o punitiva, pertanto richiede concrete e specifiche deduzioni in ordine alla sua esatta realtà.
In tale direzione, questo tipo di danno non costituisce l’effetto automatico di una eventuale condotta inadempitiva, né può ritenersi sussistente in re ipsa, ed anche se si compone di un sostrato insuscettibile di apprezzamento medico-legale, richiede comunque ed imprescindibilmente un minimo di deduzioni in fatto, tali da consentirne l’apprezzamento astratto, prima, e la prova e la liquidazione, poi.
A questo fine, si richiama l’orientamento autorevolmente espresso dalla Cassazione 24 marzo 2006, n. 6572, che ha ribadito la necessità che nei giudizi risarcitori il lavoratore assolva compiutamente all’onere di allegare il danno effettivo subito, pur senza successivi vincoli in ordine ai mezzi di prova e, quindi, con facoltà di ricorrere anche al sistema delle presunzioni semplici. In tale direzione, qualsiasi voce di danno richiede, quindi, di essere allegata, prima ancora che provata dall’attore nella sua esistenza ciò perché non potrebbe ammettersi l’esistenza di un danno in re ipsa. In tal senso, la parte aveva l’onere di circostanziare l’indicazione del danno lamentato, sia per l’aspetto interiore (per esempio, sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sè, dellapaura, della disperazione), sia per il profilo dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).
La parte ricorrente aveva cioè l’onere di chiarire la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale lamentata, ma si è limitata ad indicazioni generiche e vaghe, prive di concreto contenuto individualizzante, e ciò sia per il profilo della lesione alla dignità, sia per la violazione della privacy, per la cui configurabilità, pure, è imprescindibile un sostrato empirico e storico adeguatamente esposto in ricorso (cfr. Cass. n. 16402/2021).
La genericità delle indicazioni impedisce quindi di apprezzare anche solo in astratto l’ipotetica esistenza di questo pregiudizio e comunque non consente di ammettere la prova, per la genericità dei fatti storici su cui la stessa dovrebbe vertere. Tale carenza assertiva impedisce anche di poter verificare in astratto il nesso causale e non permette di poter eventualmente verificare la continenza del danno rispetto al perimetro delle conseguenze dannose prevedibili, secondo quel giudizio di normalità sociale che l’art. 1225 c.c. impone. Il ricorso va quindi in parte qua respinto.
Quanto all’impugnazione del patto di prova, la domanda è fondata. A tal fine, occorre ricordare che in data la ricorrente ha sottoscritto un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato decorrente dal 1.1.2021, con inquadramento nel livello A3 L5° del ccnl agricoli.
Testualmente il contratto recita: “INQUADRAMENTO Qualifica e mansioni : Livello: A3 L5° C.C.N.L. : C.c.n.l. per i dipendenti di imprese e società esercenti agricola
Essenzialmente la parte ricorrente ha eccepito la nullità del patto di prova per la genericità ed imprecisione del suo oggetto, sia con riferimento al profilo contrattuale invocato e alle mansioni assegnate, che con riferimento al CCNL applicabile.
La doglianza è fondata in quanto risulta imprecisato il contenuto mansionistico correlato al profilo indicato di stalliera, né peraltro viene indicato, allegato, né è stato prodotto in giudizio il CCNL applicabile, il cui richiamo in sede contrattuale si presenta comunque non inequivocabile.
Peraltro, dagli stralci prodotti dalla ricorrente di un ipoteticoCCNL applicabile non si trova alcuna clausola d’inquadramento o declaratoria che possa dare riscontro al profilo e alle mansioni indicate nel patto.
Il difetto formale risulta insuperabile, anche perché attiene primariamente al dato relativo alla specifica e chiara indicazione delle mansioni, elemento fondamentale al fine di verificare se l’eventuale successiva valutazione negativa risulti effettuata in modo corretto e coerente proprio sulle attribuzioni contrattualmente assegnate e quindi nel rispetto della causa tipica di tale figura negoziale.
Sussiste quindi la violazione evidente dell’art. 2096 c.c., posto che il patto di prova apposto ad un contratto di lavoro deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto; detta indicazione può essere operata anche con riferimento alle declaratorie del contratto collettivo, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria ai fini della individuazione esatta delle mansioni in concreto assegnate (Cassazione civile sez. lav., 13/04/2017, n.9597).
Inoltre, correttamente la difesa attorea ha dedotto che se il contratto collettivo fosse quello “per i lavoratori agricoli, florovivaisti, forestali e della pesca “, il termine massino di durata della prova sarebbe 14 giorni (art. 15) per i lavoratori come la ricorrente classificati nell’area terza e quindi la previsione negoziale sarebbe comunque invalida.
Alla luce di ciò, data la nullità parziale della clausola appositiva del termine, il contratto di lavoro va considerato come a tempo indeterminato. Infatti, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che la nullità della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio, in conformità del meccanismo prefigurato dall’art. 1419, comma 2 cod. civ. (Cass. n. 21698 del 2006, Cass. n. 14538 del 1999, Cass. n. 5811 del 1995, Cass. n. 11427 del 1993).
Del licenziamento In conseguenza di ciò, deve essere affrontata l’ulteriore questione posta attinente alla risoluzione del vincolo. Sul punto, intanto, circa la risoluzione del rapporto per volontà riconducibile al datore di lavoro non possono aversi dubbi in quanto in memoria la convenuta stessa riconosce che” la valutazione negativa del periodo di prova è avvenuta per le numerose assenze ingiustificate della lavoratrice, la quale a partire dal 18 gennaio 2021 non si è più presentata sul luogo di lavoro…Il comportamento adottato dal lavoratore ha dunque consentito, nel corso del periodo di prova di esaminare anche la personalità del lavoratore, prima di rendere effettiva l’assunzione, così come previsto dal patto stesso, esame che, in fattispecie si è concluso negativamente e ha portato al recesso dell’imprenditore”.
Nella missiva del 2 aprile 2021 viene peraltro ribadito il mancato superamento del periodo di prova a causa delle assenze. Pertanto, nella presente fattispecie, deve considerarsi cessato il rapporto per effetto dell’iniziativa datoriale di risoluzione. Ora, sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalle legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.
Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato – ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo ( Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).
In base a tale ricostruzione, come di recente affermato nella sentenza della corte n. n. 20239/2023, “il potere esercitato dal datore di lavoro non risulta radicalmente insussistente come, viceversa, sostenuto dalla parte ricorrente, ma è soggetto alle limitazioni connesse al principio di causalità e tipicità del licenziamento, non venendo in rilievo l’an ma solo il quomodo del relativo esercizio. E poiché il recesso motivato dal mancato superamento della prova non è riconducibile ad alcune delle cause tipiche per le quali può essere intimato il licenziamento nell’ambito del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quale è quello frutto della “conversione” dell’originario rapporto con patto di prova invalido, si pone il problema dell’inquadramento del vizio da cui è affetto il recesso.
Tale questione ha assunto concreto rilievo alla luce del mutato contesto normativo conseguente alla disciplina dettata dal d. lgs. n. 23 del 2015 – ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame ai sensi dell’art. 1 d. lgs. cit. per essere il contratto di lavoro stato stipulato il 3 agosto 2015 con decorrenza dal settembre successivo essendo venuta meno, ai fini della individuazione della tutela applicabile, già a partire dalle modifiche all’art. 18 l. n. 300 del 1970 introdotte dalla l. n. 92 del 2012 ed, in maniera più significativa, con il d. lgs. n. 23 del 2015, la pregressa equivalenza a tal fine dei vizi del licenziamento, la quale, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali, aveva comportato l’applicazione in maniera uniforme della tutela cd. reale.
.Nel contesto normativo risultante dalla riformulazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970, ad opera della legge n. 92 del 2012, il licenziamento ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova è stato ritenuto illegittimo per mancanza di “giusta causa” e di “giustificato motivo”, con applicazione della reintegrazione e della indennità risarcitoria ex art. 18, comma 4, st. lav. sul rilievo che “in tale ambito, tuttavia, il richiamo al mancato superamento della prova è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo, ed il vizio è tale da determinare l’applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, che è stata prevista dal IV comma del nuovo art. 18 della L. n. 300 del 1970 – come modificato dalla L. n. 92 del 2012, applicabile ratione temporis – per le ipotesi più evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti” (Cass. n 16214/2016 cit.). Invero, la novella del 2012 non richiedeva di procedere, come viceversa necessario in relazione all’articolazione di tutele prevista dal d. lgs n. 23/2015, ad ulteriore specifica qualificazione del vizio in oggetto in termini di riconducibilità alla categoria della “giusta causa”, del “giustificato motivo soggettivo” o del “ giustificato motivo oggettivo”, perché tali ipotesi erano tutte connotate, da punto di vista sanzionatorio, dall’applicabilità della tutela reintegratoria in ipotesi di <> o della << insussistenza del fatto >>, categorie nelle quali poteva agevolmente ricondursi, senza ulteriori approfondimenti quella del recesso ad nutum intimato in assenza di ### 15 di 20 valido patto di prova. 5.8.
Nel sistema introdotto dal d. lgs. n. 23 del 2015, connotato, invece, dal disallineamento delle tutele apprestate per il licenziamento disciplinare e per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che ammette solo la tutela indennitaria. art. 3, comma 1 d. lgs. cit.) il tema della corretta qualificazione del vizio del recesso datoriale diviene ineludibile. E così, per i cosiddetti “nuovi assunti”: − l’art. 2 del d.lgs. cit. prevede, a prescindere dal requisito dimensionale e dalla natura del datore di lavoro, una tutela reintegratoria “piena” in presenza di nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’art. 15 st. lav. ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.
La stessa tutela trova applicazione in caso di licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale o nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, della l. n. 68 del 1999; − l’art. 3, comma 2, del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela reintegratoria “attenuata” esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento; − l’art. 3, comma 1, del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela indennitaria “forte” nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo ovvero, in via residuale rispetto all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa; − l’art. 4 del d.lgs. cit. prevede, nella ricorrenza del requisito dimensionale, la tutela indennitaria “debole” nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’art. 7 st. lav. . 9 del d.lgs. cit. prevede che ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, St. lav., non si applica la tutela reintegratoria “attenuata” di cui all’art. 3, comma 2, e l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3, comma 1, e dall’art. 4, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare illimite di sei mensilità. .
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che occorre innanzitutto ribadire che, anche nel vigore del d. lgs. n. 23 del 2015 – che non ha modificato sotto il profilo sostanziale l’assetto della legge n. 604 del 1966 in punto di necessaria causalità del recesso datoriale – in continuità con la giurisprudenza di legittimità , dalla quale non vi è motivo di discostarsi, il recesso ad nutum intimato in assenza di un valido patto di prova non è radicalmente nullo per assenza del relativo potere in capo al soggetto datore di lavoro ma è un licenziamento intimato per ragioni che non sono riconducibili ad alcuna di quelle in presenza delle quali la l n. 604 del 1966 consente al datore di lavoro la unilaterale risoluzione del rapporto.
Tale considerazione dà conto del fatto che la concreta fattispecie non può essere ricondotta all’ambito delle nullità del recesso disciplinate dall’art. 2 d. lgs. cit.; dà conto, inoltre, della conseguente irrilevanza, al fine del decidere, della prospettata questione di legittimità costituzionale del citato art. 2, formulata sotto il profilo della eccesso di delega con riferimento alla previsione che limita l’applicazione della tutela prefigurata dall’art. 2 cit. oltre che all’ipotesi di licenziamento discriminatorio . La verifica della tutela applicabile si incentra quindi sull’art. 3 d. lgs cit. in relazione al quale risulta decisiva la considerazione del carattere solo residuale che nell’impianto normativo del legislatore del cd. Jobs Act assume la tutela reintegratoria, come reso palese dall’incipit che apre il primo comma dell’art. 3 “ quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità …>>. Il comma 2, infatti, stabilisce la applicazione della reintegrazione solo nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Dalle complessive considerazioni che precedono scaturisce che il recesso ad nutum in oggetto, intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 d. lgs n. 23 del 015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria.
Poiché nel caso di specie, il licenziamento benché ritenuto esistente, quale forma di manifestazione della volontà risolutoria non risulta espresso in forma scritta, lo stesso è da ritenersi inefficace ai sensi dell’art. 2 del citato d.lg..vo 4 marzo 2015 , n. 23. pertanto deve essere ordinata al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. Inoltre, va pronunciata la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui è stata accertata l’inefficacia, stabilendosi a tal fine un’indennita’ commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, qui pari ad € 1500,00 netti, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attivita’ lavorative.
Pertanto il Tribunale di Roma sezione lavoro :
a) accerta e dichiara che la ricorrente dal 1.1.2021 al 17.01.2021 durante i suoi turni di lavoro .presso la scuderia della tenuta è stata illegittimamente sottoposta a sorveglianza in assenza delle condizioni previste dall’art. 4 della legge 300/1970 così come novellato dal d. lgs. 151/2015; respinge le domande di risarcimento del danno;
B) accerta e dichiara la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato.;
C) dichiara l’inefficacia del licenziamento intimato alla ricorrente e ordina al datore di lavoro la reintegrazione della medesima nel posto di lavoro, e lo condanna al risarcimento del danno tramite corresponsione di un’indennita’ commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari ad € 1500,00 nette corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione; condanna, altresi la parte convenuta, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali;
D) compensa le spese di lite per metà e condanna la convenuta alla rifusione del residuo, liquidato in complessivi € 2430,00, da distrarsi.
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IP, IT E DATA PROTECTION
Privacy: il Garante interviene sull’uso illecito di registrazioni audio–video
Di Susanna Viggiani
Specializzanda SPISA e Consulente privacy Confartigianato
Pubblicato il 04/01/2024
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Privacy e data protection
Il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto sull’uso illecito di registrazioni audio-video raccolte mediante impianto videosorveglianza installato in un luogo di lavoro e relative a questioni e condizioni lavorative. Sono due le sanzioni emesse nei confronti di due Comuni per aver illecitamente raccolto, utilizzato e conservato le registrazioni, prive di idonea base giuridica, per infliggere una sanzione disciplinare. Le sanzioni rispettivamente di 50.000 e 20.000 euro sottolineano l’importanza di implementare procedure specifiche per garantire il rispetto delle disposizioni previste in materia di controlli a distanza dei lavoratori (
art. 4
Statuto dei Lavoratori) e trattamento dei dati personali (Reg. UE 679/2916 – GDPR).
Con due distinti provvedimenti, il Garante per la protezione dei dati personali ha comminato due sanzioni nei confronti di due diversi Comuni per il mancato rispetto della disciplina vigente in materia di controlli a distanza dei lavoratori e trattamento dei dati personali.
Con Provvedimento n. 577 del 16 novembre 2023, l’Autorità è intervenuta a seguito di un reclamo di un dipendente – all’epoca Vice Commissario di Polizia Locale – di un Comune della provincia di Brescia, che si era recato presso gli uffici del Comando di Polizia Locale di altro Comune, dove aveva tenuto un colloquio con una collega sulle sue personali condizioni di lavoro. Circa 22 giorni dopo, la Comandante della polizia locale, del Comune presso cui lavorava il reclamante, aveva chiesto ed ottenuto, dall’altro Comune, le registrazioni audio-video di tale colloquio, riprese da una telecamera posta all’interno del Comando, adducendo come motivazione lo svolgimento di un’indagine di polizia giudiziaria. Tali registrazioni, tuttavia, erano richieste per svolgere un controllo sul dipendente e successivamente sono state usate per infliggere una sanzione disciplinare al Vice Commissario, poi dimesso.
Seconda la difesa del Comune, la Comandante aveva richiesto, verbalmente tramite messaggio Whatsapp, la conservazione e successiva trasmissione delle immagini, riservandosi, allo stesso tempo, di formalizzare la richiesta scritta, compatibilmente con la consistente mole di lavoro degli uffici di Polizia Locale. In base ad una ricostruzione più approfondita dei fatti contestati, è poi emerso che la Comandante aveva presentato la richiesta di acquisizione del file per dichiarate indagini di polizia giudiziaria, sulla base del fondamento giuridico di cui all’
art.6 par. 1, lett. e)
GDPR e cioè per il perseguimento di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri. Inoltre, si precisava che il procedimento disciplinare conclusosi con l’emanazione di un rimprovero scritto era stato avviato perché il dipendente non aveva mai negato di aver reso, fuori dall’orario di servizio, alcune dichiarazioni inerenti la Comandante della Polizia Locale, il suo modo di operare e la gestione dei rapporti con il personale di polizia a lei sotto ordinato.
Il Garante, tuttavia, ha ritenuto sussistenti le violazioni degli
artt. 5, par. 1, lett. a) e b), e 6 del
GDPR, nonché dell’
art. 2-ter del
Codice Privacy, per aver acquisito dati personali del reclamante, contenuti nella registrazione audio-video effettuata dalla telecamera installata presso il Comando della Polizia Locale, e per aver successivamente trattato gli stessi nell’ambito di un procedimento disciplinare avviato nei confronti del reclamante, in maniera non conforme ai principi di liceità, correttezza, trasparenza e limitazione della finalità, nonché in assenza di idonea base giuridica. Di conseguenza, il comune è stato sanzionato per 20.000 euro per aver utilizzato dati personali del reclamante in assenza di base giuridica e per una finalità ulteriore, ovverosia per avviare un procedimento disciplinare nei confronti del reclamante.
Con Provvedimento n.578 del 16 novembre 2023, il Garante privacy ha sanzionato l’altro Comune per aver conservato le registrazioni oltre il termine di sette giorni che, in base al principio di responsabilizzazione di cui all’
art. 24
GDPR, era stato stabilito dal Comune per il perseguimento di finalità di sicurezza. In sua difesa, il Comune sosteneva che l’utilizzo della telecamera era finalizzato alla sicurezza degli operatori di Polizia Locale presenti all’interno dell’ufficio e alla tutela del patrimonio pubblico in caso di intrusione abusiva. La conservazione dei dati, oltre il tempo indicato, si era ritenuta necessaria per adempiere un obbligo legale ed eseguire un compito di interesse pubblico, di cui è investito il titolare del trattamento. Secondo il Garante, le motivazioni addotte dal Comune non sono utili a sollevare il Comune dalla violazione commessa. Al contrario, il Garante ha ribadito che allorquando siano impiegati sistemi di videosorveglianza, il titolare del trattamento, oltre a rendere l’informativa di primo livello, mediante apposizione di segnaletica di avvertimento, deve fornire agli interessati anche delle informazioni di secondo livello, che devono contenere tutti gli elementi obbligatori a norma dell’
articolo 13
GDPR ed essere facilmente accessibili per l’interessato, secondo quanto prescritto all’interno delle
Linee guida 3/2019 sul trattamento dei dati personali attraverso dispositivi video.
In base al principio di limitazione della conservazione, i dati personali devono essere conservati in una forma che consenta l’identificazione degli stessi per un arco di tempo non superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati (art. 5, par. 1, lett. e). Sulla base di quanto è emerso nel corso dell’istruttoria, si evidenzia che le esigenze di sicurezza invocate dal Comune, non possono di per sé legittimare il trattamento dei dati personali mediante strumenti dai quali può derivare anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, in assenza delle garanzie previste dall’
art. 4, commi 1 e 3,
L. 300/1970. In ragione di tali considerazioni, il trattamento dei dati personali effettuato mediante la telecamera risulta essere stato effettuato in contrasto con la normativa vigente in materia di protezione dei dati personali e con la disciplina di settore in materia di controlli a distanza del lavoratore.
In entrambi i casi, il Garante ha rilevato la sproporzione dell’acquisizione delle registrazioni tramite dispositivi di videosorveglianza, con il rischio di “carpire” informazioni sulle opinioni, relazioni o vicende private dei lavoratori o su fatti comunque non rilevanti nell’ambito del rapporto di lavoro.
I provvedimenti da un lato hanno ribadito l’uso delle riprese solo per le finalità riconosciute dalla legge, dall’altro hanno evidenziato l’importanza delle tutele statuarie richiamando l’
art. 113 e ss del
Codice privacy che pongono un espresso collegamento con le tutele dello Statuto dei Lavoratori.
Tribunale federale del lavoro tedesco: i dati dei dipendenti possono essere utilizzati anche in procedimenti giudiziari se il precedente trattamento da parte del datore di lavoro (videosorveglianza) era illegittimo
Tra le altre cose, il Tribunale federale del lavoro (SACCO) ha dovuto affrontare la questione se i dati personali della videosorveglianza da parte di un datore di lavoro possano essere utilizzati e presi in considerazione in una causa, anche se la videosorveglianza ha violato la legge sulla protezione dei dati.
– Trattamento dei dati personali per un’altra finalità (da parte della Corte) –
Se questo trattamento viene effettuato per uno scopo diverso da quello per il quale i dati sono stati raccolti, ciò è consentito ai sensi dell’art. (4)hashtag#GDPR & considerando 50, in particolare se il trattamento si basa sul diritto di uno Stato membro e costituisce una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per proteggere gli obiettivi di cui all’articolo 23(1) Il regolamento generale sulla protezione dei dati. Il titolare del trattamento ha il diritto di continuare a trattare i dati personali indipendentemente dal fatto che il trattamento sia compatibile con le finalità per le quali i dati personali sono stati originariamente raccolti (Corte di giustizia, C-268/21, margine n. 33). Ai sensi dell’art. 23 (1) (f) GDPR, gli obiettivi standardizzati all’art. 6 (4) Il GDPR include la “protezione dell’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari”. Inoltre, ai sensi dell’art. 23 (1) (j) GDPR, anche l’esercizio di azioni civili è un obiettivo che può giustificare il trattamento dei dati personali per una finalità diversa da quella per cui sono stati raccolti (Corte di giustizia, C-268/21, margine n. 38).
– Ulteriore trattamento anche se la raccolta ha violato il GDPR –
Secondo il BAG, il trattamento dei dati personali (fornite dalle parti del procedimento) dall’organo giurisdizionale è possibile anche se la raccolta di tali dati da parte di una parte in causa era illegale.
Ciò si evince dall’art. 17 (1) (d) Il regolamento generale sulla protezione dei dati. I dati personali devono essere cancellati se sono stati trattati illecitamente, il che include anche la loro raccolta illecita. Tuttavia, esiste un’eccezione al diritto alla cancellazione dei dati trattati illecitamente ai sensi dell’articolo 17 (3) (e) GDPR nella misura in cui l’ulteriore trattamento dei dati in questione è “necessario” per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
Anche se l’art. 17 (3) (e) Il GDPR non costituisce una base giuridica per un ulteriore trattamento in questi casi, i motivi necessari per l’autorizzazione risiedono nell’art. (1) (e) in concomitanza con (3) e, se del caso, (4) in combinato disposto con l’art. 23 (1) (f) e (j) GDPR in combinato disposto con le norme nazionali pertinenti e applicabili del codice di procedura civile.
Il trattamento dei dati personali del dipendente raccolti illecitamente dal datore di lavoro sarebbe sproporzionato solo se il monitoraggio costituisse una grave violazione degli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali e altre eventuali sanzioni per il datore di lavoro sarebbero del tutto inadeguate
In un processo di protezione dal licenziamento non è generalmente vietato l’uso di registrazioni di videosorveglianza aperta destinate a dimostrare che il dipendente ha intenzionalmente violato il contratto. Ciò vale anche se le misure di sorveglianza del datore di lavoro non sono completamente in linea con i requisiti della legge sulla protezione dei dati.
L’attore è stato recentemente assunto dall’imputato come portavoce della squadra della fonderia. L’imputato lo accusa, tra l’altro: sostiene di non aver effettuato il cosiddetto turno straordinario il 2 giugno 2018, con l’intenzione di percepirne comunque la retribuzione. Secondo la sua stessa argomentazione, il ricorrente sarebbe inizialmente entrato nello stabilimento proprio quel giorno. L’analisi delle registrazioni effettuate da una telecamera sul cancello dell’area della fabbrica, contrassegnato da un pittogramma e non poteva altrimenti essere trascurato, a seguito di una segnalazione anonima, ha dimostrato, secondo la convenuta, che l’attore se n’è andato prima dell’inizio dello spostamento. La convenuta ha risolto il rapporto di lavoro delle parti in via straordinaria o, in alternativa, regolarmente.
Con la sua azione legale contro questo, il querelante ha, tra le altre cose: ha affermato che stava lavorando il 2 giugno 2018. I risultati della videosorveglianza sono soggetti al divieto di presentazione dei fatti e di utilizzo di prove e non dovrebbero quindi essere presi in considerazione nel processo di tutela dal licenziamento.
I tribunali hanno accolto la denuncia. Il ricorso dell’imputato contro tale decisione è stato accolto dinanzi al Secondo Senato del Tribunale federale del lavoro, ad eccezione di una richiesta riguardante un certificato provvisorio. Ciò ha portato al rinvio della questione al Tribunale del Lavoro dello Stato. Ciò non solo doveva basarsi sull’argomentazione dell’imputato secondo cui l’attore avrebbe lasciato lo stabilimento prima dell’inizio del turno di straordinario, ma doveva anche esaminare, se necessario, la sequenza di immagini rilevante dalla videosorveglianza al cancello fino allo stabilimento . Ciò risulta dalle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione nonché dal diritto procedurale e costituzionale nazionale. Non importa se il monitoraggio è conforme sotto ogni aspetto ai requisiti della legge federale sulla protezione dei dati o del regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Anche se così non fosse, non sarebbe escluso il trattamento dei dati personali rilevanti del ricorrente da parte dei tribunali del lavoro ai sensi del GDPR. Ciò vale in ogni caso se la raccolta dei dati avviene apertamente, come nel caso in esame, e se vi è un comportamento intenzionale da parte del dipendente che viola il contratto. In tal caso è sostanzialmente irrilevante il tempo che il datore di lavoro ha aspettato prima di visionare le immagini per la prima volta e di averle tenute a disposizione fino a quel momento. Il Senato potrebbe lasciare aperta la questione se, in via eccezionale, si possa prendere in considerazione un divieto di sfruttamento per ragioni di prevenzione generale rispetto a violazioni intenzionali dei doveri qualora la misura di sorveglianza aperta costituisca una grave violazione dei diritti fondamentali. In questo caso non è stato così.
Tribunale federale del lavoro, sentenza del 29 giugno 2023 – 2 AZR 296/22 –
Tribunale di grado inferiore: Tribunale statale del lavoro della Bassa Sassonia, sentenza del 6 luglio 2022 – 8 Sa 1149/20 –
Nota: il Senato ha inoltre rinviato tre procedimenti simili al Tribunale del Lavoro dello Stato a seguito del ricorso dell’imputato.
tenore
1. In risposta all’appello del convenuto, la sentenza del Tribunale statale del lavoro della Bassa Sassonia del 6 luglio 2022 – 8 Sa 1149/20 – è annullata – respingendo per il resto l’appello – nella parte in cui ha accolto le domande dell’attore per protezione contro il licenziamento e ha respinto la domanda di scioglimento del convenuto.
2. Nella misura dell’annullamento, la questione verrà rinviata ad un’altra sezione del Tribunale del lavoro statale per una nuova udienza e decisione, comprese le spese del procedimento di ricorso.
Principio guida
1. In un procedimento di tutela contro il licenziamento, ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati e del codice di procedura civile, in genere non è vietato l’uso di registrazioni di videosorveglianza aperta destinate a dimostrare che il dipendente ha intenzionalmente violato le norme contrarre. Ciò vale anche se le misure di sorveglianza del datore di lavoro non sono completamente in linea con i requisiti della legge sulla protezione dei dati.
2. Le parti aziendali non hanno il potere normativo di stabilire un divieto di sfruttamento che vada oltre le norme processuali formali del codice di procedura civile, ovvero di limitare di fatto la capacità del datore di lavoro di esporre fatti relativi ai fatti aziendali in una controversia giuridica individuale.
I fatti del caso
Le parti contestano principalmente l’efficacia della risoluzione straordinaria.2
L’attore è stato recentemente assunto dall’imputato come portavoce della squadra della fonderia. L’imputato lo accusa, tra l’altro: sostiene che il 2 giugno 2018 (sabato) non ha effettuato il cosiddetto turno straordinario con l’intenzione di non essere pagato. Secondo l’accordo di entrambe le parti, il ricorrente è entrato inizialmente nello stabilimento quel giorno. L’analisi delle registrazioni effettuate dalla telecamera del cancello 5 verso l’area della fabbrica, identificata da un pittogramma e non poteva altrimenti passare inosservata, a seguito di una segnalazione anonima, ha dimostrato, secondo l’imputato, che l’attore se n’è andato prima dell’inizio della lo spostamento.3
Il convenuto ha risolto il rapporto di lavoro delle parti – sentito il comitato aziendale – con preavviso straordinario senza preavviso con lettera del 5 ottobre 2019 e con ulteriore lettera del 9 ottobre 2019, a far data dal 31 dicembre 2019.4
L’attore ha tempestivamente intentato la presente causa e, tra l’altro, afferma che stava lavorando il 2 giugno 2018. Le risultanze della videosorveglianza effettuate dall’imputato sono soggette al divieto di presentare fatti e di utilizzare prove. Nonostante ciò, il comitato aziendale non è stato adeguatamente consultato. Il convenuto non ha rispettato il termine di dichiarazione previsto dall’art. 626 comma 2 BGB per la disdetta straordinaria.5
Il ricorrente ha presentato domanda per ultimo
1. | di stabilire che il rapporto di lavoro delle parti non è stato risolto con il licenziamento del convenuto il 5 ottobre 2019, | |
2. | di stabilire che il rapporto di lavoro delle parti non è stato risolto con il licenziamento del convenuto il 9 ottobre 2019, | |
3. | ordinare all’imputato di rilasciargli un certificato provvisorio qualificato, | |
4. | In alternativa, in caso di soccombenza con il ricorso sub 3. ordinare al convenuto di rilasciargli un certificato finale qualificato. |
La convenuta ha chiesto il rigetto della causa e, in secondo grado, in subordine,
di risolvere il rapporto di lavoro il 31 dicembre 2019 in cambio del pagamento di una indennità di fine rapporto, il cui importo è a discrezione del giudice ma non potrà superare i 50.000,00 euro lordi. |
Ha chiesto il querelante
respingere la domanda di scioglimento. |
Per giustificare i licenziamenti, l’imputato ha sostenuto che l’attore si è presentato in fabbrica solo il 2 giugno 2018 per simulare la sua presenza per effettuare il turno di straordinario. In ogni caso le sue dichiarazioni non veritiere nel processo hanno giustificato la risoluzione del rapporto di lavoro.9
I tribunali di grado inferiore hanno accolto la causa con i ricorsi da 1 a 3. Anche il tribunale statale del lavoro ha respinto la richiesta di scioglimento dell’imputato. Con il ricorso in appello la convenuta continua a chiedere il rigetto della causa o, in subordine, lo scioglimento da parte del giudice del rapporto di lavoro delle parti.
Motivi della decisione
Il ricorso dell’imputato è in gran parte fondato.11
I. La revisione è complessivamente ammissibile. Ciò vale anche per la richiesta di un certificato provvisorio qualificato. A questo riguardo non era necessaria alcuna giustificazione separata. § 72 comma 5 ArbGG in combinato disposto con. § 551 comma 3 frase 1 n. 2 ZPO, perché il convenuto presuppone che il Senato stesso possa respingere le richieste del ricorrente di protezione contro il licenziamento. Se così fosse, secondo la giurisprudenza del Settimo Senato basata sul Tribunale del Lavoro dello Stato (BAG 4 novembre 2015 – 7 AZR 933/13 – Rn. 39), non ci sarebbe più spazio per l’emissione di un certificato provvisorio qualificato. Una decisione del Tribunale federale del lavoro ai sensi del § 563 comma 3 ZPO diventa giuridicamente vincolante con la sua pronuncia (§ 705 frase 1 ZPO) .12
II. Il ricorso della convenuta riguardo alla domanda di rilascio di un certificato provvisorio qualificato è tuttavia infondato perché manca della separata motivazione richiesta a questo proposito ai sensi dell’art. Sezione 64 paragrafo 6 frase 1 ArbGG in combinazione con. § 520 comma 3 frase 2 ZPO era inammissibile. Il verdetto di un tribunale statale del lavoro generalmente non diventa giuridicamente vincolante nel momento in cui viene emesso. Pertanto, secondo la richiamata giurisprudenza del Settimo Senato, anche il datore di lavoro è condannato al richiesto rilascio di un certificato provvisorio qualificato qualora la corte d’appello ritenga risolto il rapporto di lavoro delle parti.13
III. Inoltre, il ricorso della convenuta è fondato. Il Tribunale del lavoro statale ha respinto il suo ricorso avverso la sentenza di primo grado favorevole all’azione con motivazioni giuridicamente errate riguardo alle domande di tutela contro il licenziamento e ha respinto la sua domanda di scioglimento. Poiché il Senato stesso non può pronunciarsi in via definitiva sulla domanda prioritaria avverso la risoluzione straordinaria, la sentenza di appello deve essere ribaltata (art. 562 cpv. 1 ZPO) e la questione – compresa la domanda alternativa indecisa per il rilascio di un certificato finale qualificato – deve essere sottoposta ad una nuova udienza e decisione di rinvio ad un’altra sezione del Tribunale del lavoro statale (articolo 563 paragrafo 1 frase 1 e frase 2 ZPO) .14
1. L’affermazione ancora controversa e non interpretata dal tribunale d’appello ai sensi dell’articolo 133 del Codice civile tedesco (BGB) deve essere intesa nel senso che l’attore ha inizialmente presentato due domande ai sensi dell’articolo 4 della frase 1 del KSchG. Con ricorso principale si oppone alla risoluzione straordinaria, con istanza ausiliaria spuria contro la risoluzione ordinaria (vedi BAG 27 settembre 2022 – 2 AZR 508/21 – Rn. 12; 10 dicembre 2020 – 2 AZR 308/20 – Rn 9, BAGE 173, 233) .15
2. Nel merito, il Tribunale del Lavoro ha commesso un errore di diritto accogliendo la domanda prioritaria avverso il licenziamento straordinario per mancanza di un motivo importante ai sensi di. § 626 comma 1 BGB.16
a) La Corte d’appello ha giustamente presunto in limine che il comportamento dell’imputato in data 2 giugno 2018 (occultamento della retribuzione per un turno di lavoro straordinario non svolto) – qualora fosse indiscusso o provato – costituisse già un motivo importante ai sensi dell’art. : § 626 comma 1 BGB può procedere ad una risoluzione straordinaria senza preavviso.17
b) Inoltre, il Tribunale del Lavoro ha giustamente ritenuto che anche il forte sospetto di tale comportamento possa costituire un motivo importante.18
c) Tuttavia, il giudice d’appello ha erroneamente ritenuto che l’attore avesse sufficientemente contestato la tesi dell’imputato – prescindendo dall’eventuale intervento di un divieto di utilizzo di presentazioni materiali – secondo cui egli non aveva svolto il turno lavorativo aggiuntivo del 2 giugno 2018 con il intenzione di inganno. Il Tribunale del lavoro statale ha frainteso i principi dell’onere di presentazione graduale, che entrano in gioco se il datore di lavoro deve presentare un fatto negativo (qui: mancato completamento del turno dopo aver precedentemente fatto finta di essere presente) (vedi BAG 16 dicembre 2021 – 2 AZR 356/21 – Rn. 31 ss.) .19
aa) Secondo le concordi deduzioni di entrambe le parti, l’attore si è presentato in modo vincolante per il turno di straordinario il 2 giugno 2018 ed è entrato nello stabilimento prima dell’inizio del turno con la sua carta d’identità lavorativa, attivando un registro elettronico delle presenze attraverso un tornello all’indirizzo cancello 5. Ai fini dell’accusa di licenziamento sollevata dall’imputato non ha alcuna rilevanza giuridica il fatto che egli abbia successivamente iscritto il suo nome in un elenco dei presenti disponibile sul posto o che abbia fatto inserire il suo nome da un’altra persona. L’unica cosa fondamentale è fingere di essere presenti con l’intenzione di non effettuare il turno senza giustificazione.20
bb) Secondo la convenuta quest’ultima ipotesi è avvenuta perché l’attore è uscito dallo stabilimento prima dell’inizio del turno di lavoro straordinario e poi non vi è più rientrato prima o almeno durante il turno. La convenuta ha quindi soddisfatto il suo onere primario della prova che l’attore non avrebbe potuto effettuare il turno aggiuntivo (negativo).21
cc) Sarebbe poi spettato al ricorrente, nell’ambito di un onere della prova secondario, dimostrare le circostanze di fatto che parlano in positivo: il regolare svolgimento del turno di lavoro straordinario. A tal fine avrebbe dovuto prima spiegare concretamente se intendeva rimanere nell’area della fabbrica per tutto il tempo o se voleva uscirne nuovamente rientrandovi tempestivamente. Questo è ciò che finora manca. Inoltre, il Tribunale del lavoro statale non ha riscontrato alcun fatto che avrebbe reso una decisione irragionevole per il ricorrente (vedi BGH 8 gennaio 2019 – II ZR 139/17 – Rn. 32) . L’argomento contrario è che, secondo la sua argomentazione, voleva lasciare di nuovo la fabbrica solo in rari casi eccezionali prima dell’inizio del turno – inizialmente. Pertanto, questo deve essere rimasto nella sua memoria. Inoltre, secondo la stessa tesi della ricorrente, l’accesso allo stabilimento è possibile solo dall’ingresso principale, presidiato da un custode, senza utilizzare la carta d’identità aziendale per attivare un tornello e allo stesso tempo registrare elettronicamente le presenze. L’attore avrebbe quindi dovuto spiegare – in modo credibile sulla base dell’esperienza di vita (cfr. BGH 19 aprile 2001 – I ZR 238/98 – su II 1 dei motivi) – perché non ricorda più il rientro estremamente insolito nel potrebbero essere i locali della fabbrica tramite l’ingresso principale. In assenza di corrispondenti argomentazioni va considerata ammessa l’affermazione del convenuto relativa alla mancata esecuzione del turno di lavoro supplementare da parte dell’attore per intento fraudolento ai sensi dell’art. 138 par. 3 ZPO.22
d) In considerazione dell’insufficiente respingimento da parte del ricorrente dell’accusa di non aver effettuato il turno straordinario con l’intento di ingannare, il tribunale regionale del lavoro avrebbe imposto non solo il divieto di assunzione di prove, ma soprattutto il divieto di utilizzare presentazioni basate sui fatti ( per gli effetti di cui vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – punto 16, BAGE 163, 239) deve esaminare l’argomentazione del convenuto da cui deriva la mancanza di lavoro del ricorrente il 2 giugno 2018. Tuttavia, non vi è alcun divieto di presentare fatti o di assumere prove. Piuttosto, la corte d’appello doveva rispettare l’articolo 6, paragrafo 1, comma. 1 lettera e in combinazione con Paragrafo 3 ed eventualmente paragrafo 4 in combinato disposto con. Art. 23 comma 1 lettere f e j GDPR in combinato disposto con. § 3 BDSG e le disposizioni del codice di procedura civile (§§ 138, 286, 371 ss. ZPO) la decisione non dovrebbe basarsi solo sulle affermazioni del convenuto secondo cui l’attore ha lasciato prematuramente la fabbrica, ma anche, se necessario, sulla relativa sequenza di immagini della sorveglianza date un’occhiata al cancello 5.23
aa) La questione se i tribunali del lavoro possano o debbano tenere conto degli argomenti giuridici significativi delle parti e, se necessario, delle loro prove nel prendere la decisione verrà risolta in conformità con le sue norme dopo l’entrata in vigore del GDPR. Il GDPR disciplina anche l’ammissibilità del trattamento dei dati nei procedimenti dinanzi ai tribunali civili nazionali.24
(1) Ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, comma. 1 lettera e GDPR, il trattamento dei dati personali è lecito se è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il responsabile. Secondo l’articolo 6 paragrafo 3 frase 1 lettera b GDPR la base giuridica di tale trattamento può essere determinata dal diritto dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento. Secondo l’Articolo 6 Paragrafo 3 Frase 4 GDPR, ciò deve perseguire un obiettivo di interesse pubblico ed essere proporzionato allo scopo legittimo perseguito. Ciò è ipotizzabile se i tribunali civili (CGE 2 marzo 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg] Rn. 32) – che, secondo l’interpretazione del diritto dell’Unione, comprendono anche i tribunali in materia di lavoro (a un processo di protezione dal licenziamento come controversia di diritto civile ai sensi di Bruxelles Ia-VO cfr. BAG 7 maggio 2020 – 2 AZR 692/19 – Rn. 16) – esercitare i poteri giudiziari loro conferiti dal diritto nazionale (CGE maggio 4, 2023 – C-60/22 – [Repubblica federale di Germania] 73) .25
(2) Se questo trattamento avviene per uno scopo diverso da quello per il quale i dati sono stati raccolti, ciò è conforme all’articolo 6 paragrafo 4 GDPR in combinato disposto con. Il considerando 50 è particolarmente ammissibile se il trattamento che modifica la finalità si basa sul diritto di uno Stato membro e rappresenta una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per proteggere gli obiettivi di cui all’articolo 23, paragrafo 1, del GDPR. Secondo il considerando 50, al fine di tutelare questi importanti obiettivi di interesse pubblico generale, il titolare del trattamento ha il diritto di continuare a trattare i dati personali indipendentemente dal fatto che il trattamento sia compatibile con le finalità per le quali i dati personali sono stati originariamente raccolti ( CGE 2 marzo 2019, 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg], punto 33) . Gli obiettivi standardizzati nell’articolo 6 paragrafo 4 GDPR comprendono, secondo l’articolo 23 paragrafo, gli interventi esterni, ma anche la corretta amministrazione della giustizia. Inoltre, ai sensi dell’articolo 23 comma 1 lettera j del GDPR, l’attuazione di pretese di diritto civile rappresenta anche un obiettivo che può giustificare il trattamento dei dati personali per uno scopo diverso da quello per cui sono stati raccolti (cfr. CGUE 2 marzo 2023) . – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg], punto 38) . A questo proposito, è irrilevante se il loro trattamento si fondi su una disposizione sostanziale o procedurale del diritto nazionale (cfr. Corte di giustizia europea 2 marzo 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg] Rn. 40) . Gli articoli 138, 286, 355 e seguenti soddisfano i suddetti requisiti del diritto dell’Unione – che spetta ai tribunali tedeschi valutare (cfr. CGCE 2 marzo 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg] Rn. 39, 53). .ZPO. Tali disposizioni del diritto nazionale obbligano le parti a presentare un argomento circostanziato e veritiero e il giudice a tenerne pienamente conto e, se necessario, a effettuare una valutazione fattuale, anche per quanto riguarda l’eventuale assunzione di prove. Essi rappresentano la base giuridica necessaria per il relativo trattamento in procedimenti giudiziari ai sensi dell’articolo 6 paragrafo 3 frase 1 lettera b GDPR.26
(3) Il trattamento dei dati personali da parte del tribunale – se necessario per uno scopo diverso – viene preso in considerazione anche se la raccolta pregiudiziale o extragiudiziale di questi dati da parte di una parte in causa è conforme al GDPR o alla legge nazionale sulla protezione dei dati – come accettato dal Tribunale del Lavoro dello Stato rappresenta illegale. Ciò risulta chiaramente dall’articolo 17 del GDPR senza che sia necessaria una relativa procedura pregiudiziale da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 267, paragrafo 3, TFUE. Secondo il paragrafo 1 lettera d i dati personali devono essere cancellati se sono stati trattati illecitamente, il che, secondo l’articolo 4 n. 2 GDPR, comprende anche la loro raccolta illecita. Tuttavia, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 3, lettera e del GDPR, esiste un’eccezione al diritto di cancellare i dati trattati illecitamente nella misura in cui un ulteriore trattamento dei dati in questione sia “necessario” per far valere, esercitare o difendere diritti legali. Al riguardo, la Corte ha chiarito che il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto illimitato, ma – come precisato nel considerando 4 del GDPR – deve essere visto alla luce della sua funzione sociale e bilanciato con altri fondamentali diritti nel rispetto del principio di proporzionalità (CGCE 24 settembre 2019 – C-136/17 – [GC et al.] Rn. 57; Baker in Kühling/Buchner GDPR 3a edizione Art. 13 Rn. 68) . Anche se in questi casi l’articolo 17 paragrafo 3 lettera e RGPD non costituisse base giuridica per un ulteriore trattamento, l’autorizzazione necessaria si troverebbe nell’articolo 6 paragrafo 1 comma. 1 lettera e in combinazione con Paragrafo 3 ed eventualmente paragrafo 4 in combinato disposto con. Art. 23 comma 1 lettere f e j GDPR in combinato disposto con. § 3 BDSG in combinato disposto con. le citate norme del codice di procedura civile (§§ 138, 286, 355 ss. ZPO) .27
bb) In caso di controversia, il Senato non è tenuto a decidere in via definitiva se ed eventualmente a quali condizioni un divieto procedurale di utilizzo dei dati possa applicarsi a fatti di cui un datore di lavoro è venuto a conoscenza attraverso trattamento illecito dei dati. Un divieto di presentare fatti o di utilizzare prove viene preso in considerazione, soprattutto nell’ambito del RGPD, solo se la mancata presa in considerazione delle osservazioni o delle prove si basa su un obbligo previsto dal diritto dell’Unione o dall’articolo 2 paragrafo 1 in congiunzione con. La posizione giuridica del lavoratore tutelata dall’articolo 1 capoverso 1 Legge fondamentale è imperativa. Di norma ciò non si verifica se la violazione degli obblighi è stata commessa intenzionalmente ed è stata oggetto di una misura di sorveglianza aperta.28
(1) Il Senato può presumere a favore del dipendente interessato da videosorveglianza aperta che – sebbene sembri piuttosto dubbio – il carattere di necessità di cui all’articolo 17 comma 3 lettera e GDPR richiede un test di proporzionalità completo. Altrimenti la disposizione sarebbe inefficace e l’articolo 47 comma 2 CFR garantisce il diritto a una tutela giuridica effettiva e in particolare a un processo equo, secondo il quale le parti in una procedura civile devono generalmente essere in grado di giustificare e dimostrare adeguatamente il loro obiettivo di tutela giuridica (cfr. CGE 2 marzo 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg] Rn. 53) , il trattamento giudiziario dei dati personali del dipendente ricorrente illecitamente raccolti dal datore di lavoro non potrebbe che rivelarsi inappropriato (sproporzionato in senso stretto) qualora la misura di sorveglianza ai sensi del diritto dell’Unione dovesse rivelarsi una grave violazione degli articoli 7 e 8 del TFR e di altre possibili sanzioni per il datore di lavoro (ad esempio il risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 82 del GDPR e l’irrogazione di sanzioni pecuniarie ai sensi dell’articolo 83 GDPR) sarebbe del tutto inadeguato.29
(2) D’altro canto – il che appare anch’esso discutibile – si può ritenere a favore del dipendente ricorrente che ai sensi dell’articolo 17 comma 3 lettera e del GDPR, in un’interpretazione costituzionalmente conforme del diritto processuale nazionale, il giudice può eccezionalmente essere è fatto divieto di presentare fatti o di utilizzare prove ottenute dal datore di lavoro nell’ambito del trattamento dei dati che violino il diritto del lavoratore all’autodeterminazione informativa (art. 2 cpv. 1 in combinato disposto con art. 1 cpv. 1 GG ) . Una situazione del genere ha portato alla mancanza di una base giuridica nel diritto procedurale degli Stati membri. Articolo 6 comma 1 comma 1 lettera e in combinazione con Manca il paragrafo 3 frase 1 lettera b GDPR (paragrafo 24 f.) . Ciò a sua volta significherebbe che non vi sarebbe alcuna autorizzazione ai sensi del diritto dell’UE per il trattamento dei dati da parte di un tribunale.30
(a) Un divieto di sfruttamento viene preso in considerazione se ciò è assolutamente necessario a causa della posizione giuridica della parte tutelata dalla Legge fondamentale. Di norma ciò presuppone che gli scopi di tutela del diritto fondamentale violati durante l’acquisizione siano in conflitto con l’uso delle conoscenze o delle prove in controversie legali e che l’uso stesso costituirebbe quindi una violazione dei diritti fondamentali. Ciò avviene se il giudice, che ai sensi dell’articolo 1 comma 3 Legge fondamentale è direttamente vincolato dai diritti fondamentali, interviene senza giustificazione nella posizione costituzionalmente tutelata di una parte, perpetuando o approfondendo una violazione dei diritti della personalità da parte di un privato . Al di là del loro dovere di astenersi da violazioni ingiustificate dei diritti fondamentali, i tribunali possono, nella migliore delle ipotesi, essere tenuti da un dovere costituzionale di tutela a contrastare attivamente una violazione dei diritti personali generali da parte di privati e a ignorare le presentazioni fattuali o le prove presentate da una parte per ragioni di prevenzione generale, altrimenti la norma di protezione violata risulterebbe inefficace nei casi in questione (BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 14, BAGE 163, 239) .31
(b) Un riferimento all’articolo 2, paragrafo 1 in combinato disposto con Il divieto di sfruttamento ex art. 1 comma 1 Legge fondamentale è, anche tenendo conto delle prescrizioni dell’art. 17 comma 3 lettera e RGPD assunte dal Senato a favore del lavoratore interessato, regolarmente escluso per quanto riguarda tale immagine le sequenze di videosorveglianza aperta commesse intenzionalmente32
(aa) La violazione del diritto del lavoratore all’autodeterminazione informativa attraverso una misura di sorveglianza aperta è causata, da un lato, dall’inibizione del comportamento (pressione psicologica all’adattamento) e, dall’altro, dalla reificazione del comportamento comunque mostrato, compreso il rischio intrinseco che la registrazione venga diffusa. A differenza di una misura di sorveglianza nascosta, una sorveglianza visibile alla persona non riguarda la protezione contro lo spionaggio (segreto), ma piuttosto “solo” la protezione contro lo sviluppo, la documentazione e la diffusione. Un divieto di sfruttamento viene preso in considerazione solo se e nella misura in cui il lavoratore è meritevole di protezione per tali scopi. Questo non è il caso se il datore di lavoro viene a conoscenza di una violazione intenzionale dei propri obblighi attraverso i dati disponibili e vuole reagire. Al dipendente non è stato impedito di agire in modo indipendente dal precedente monitoraggio e registrazione del suo comportamento. Piuttosto, nonostante fosse a conoscenza della sorveglianza, ha deciso di commettere un atto intenzionale a danno del datore di lavoro. Questo comportamento è stato documentato e ne ha quindi reso possibile la diffusione. Tuttavia, il lavoratore deve accettare questa conseguenza – che riconosce in considerazione dell’apertura della sorveglianza – se la sequenza di immagini in questione viene utilizzata per fornire “la prova del reato” in un processo di tutela dal licenziamento, cioè è destinata esclusivamente a far rispettare il interessi giuridicamente tutelati del datore di lavoro (cfr. Corte EDU 27 maggio 2014 – 10764/09 – [De la Flor Cabrera/Spagna]; Niemann JbArbR Vol. 55 pp. 41, 60) . Il diritto all’autodeterminazione informativa, costituzionalmente garantito, non può essere invocato al solo fine di eludere la responsabilità per atti intenzionalmente illeciti (vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 30, BAGE 163, 239 ; BGH 24 novembre, 1981 – VI ZR 164/79 – a II 2 b della motivazione) . La protezione dei dati non è protezione dalle azioni.33
(bb) Gli aspetti di prevenzione generale potrebbero tutt’al più portare a un divieto di sfruttamento in relazione a comportamenti illeciti intenzionali da parte del lavoratore, qualora la misura di sorveglianza del datore di lavoro in quanto tale, nonostante la sua aperta attuazione, si rivelasse una grave violazione della legge di cui all’art. Articolo 2 comma 1 in combinato disposto con. 1 comma 1 Legge fondamentale (concepibile, ad esempio, nel caso di sorveglianza aperta di servizi igienici o spogliatoi o sorveglianza aperta continua senza possibilità di ritiro, vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 35 , BAGE 163, 239) . Ciò corrisponde ai requisiti assunti a favore del lavoratore nell’articolo 17 paragrafo 3 lettera e GDPR in combinato disposto con. Gli articoli 7 e 8 della Convenzione (paragrafo 28) corrispondono con sufficiente chiarezza al diritto dell’Unione, su cui il Senato può decidere senza una connessa domanda di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, paragrafo 3, TFUE.34
cc) In definitiva, non vi è alcun divieto di visionare sequenze di immagini incriminate provenienti da videosorveglianza aperta perché non possono evidenziare alcun comportamento del dipendente che rappresenti o almeno indichi una violazione intenzionale degli interessi legali del datore di lavoro. Poiché l’art. 103 cpv. 1 Legge fondamentale e l’art. 47 cpv. 2 Legge fondamentale presuppongono fondamentalmente l’accertamento di prove significative, l’assunzione delle prove non può essere omessa per la semplice possibilità che violi i diritti fondamentali. A questo proposito esistono anche sufficienti altri meccanismi di protezione per il lavoratore interessato. L’ispezione visiva non rivela “assolutamente nulla” nel senso. datore di lavoro, non solo perde il processo. Piuttosto, l’ulteriore elaborazione di sequenze – chiaramente – irrilevanti e la loro introduzione in una controversia legale può costituire una grave violazione dei diritti personali, per la quale è responsabile ai sensi del § 823 comma 1 BGB in combinato disposto con. Art. 2 comma 1 in combinato disposto con Art. 1 comma 1 GG è tenuto al risarcimento pecuniario (BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 36, BAGE 163, 239) o al risarcimento dei danni morali ai sensi dell’articolo 82 GDPR (CGUE 4 maggio 2023 – C-300 /21 – [Poste austriache]) .35
dd) Nel presente contenzioso si deve tener conto delle presunte risultanze dell’imputato relative alla videosorveglianza al cancello 5 dello stabilimento, nonché della sequenza di immagini che dovrebbe mostrare l’attore che lascia anticipatamente lo stabilimento , se necessario, dovevano essere esaminati come prova.36
(1) Si trattava di una videosorveglianza aperta, identificata da almeno un pittogramma e altrimenti impossibile da trascurare. Dal punto di vista giuridico è irrilevante che il pittogramma – al di là del monitoraggio – non si riferisse specificamente alla registrazione e alla memorizzazione delle sequenze di immagini e che il convenuto potrebbe non aver adempiuto pienamente ai suoi obblighi di informazione ai sensi dell’articolo 13 capoverso 1 e capoverso 2 GDPR. In ogni caso, il ricorrente doveva presupporre che anche il suo “comportamento di passaggio” potesse essere registrato e archiviato. Non è stato segretamente “spiato”, ma piuttosto si è sottoposto a una registrazione “ad occhio nudo” della sua possibile violazione intenzionale del dovere. Le cose sarebbero andate diversamente se l’imputato lo avesse “rassicurato” riguardo alla registrazione e alla conservazione delle violazioni intenzionali dei doveri (vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 44, BAGE 163, 239) . Tuttavia, nulla è stato stabilito al riguardo. Dall’argomentazione del ricorrente, controversa e infondata, non consegue altro, secondo cui il comitato aziendale sarebbe stato informato che la videosorveglianza avrebbe dovuto dare ai non dipendenti e ai dipendenti che avevano problemi con la propria carta d’identità la possibilità di suonare un campanello per chiamare la sicurezza della fabbrica. noi in modo che possa aprire il cancello della fabbrica da remoto. Da ciò non si può dedurre che ciò sia stato comunicato al comitato aziendale come unico scopo della videosorveglianza, in particolare dell’uscita dallo stabilimento. Ciononostante non è stato né dimostrato né altrimenti accertato che l’imputato abbia spiegato al comitato aziendale che veniva effettuato un puro monitoraggio video o che le registrazioni delle telecamere non dovevano essere utilizzate per individuare violazioni intenzionali degli obblighi.37
(2) Il tribunale statale del lavoro non ha determinato l’esatta area di copertura delle telecamere al cancello 5 della fabbrica. Tuttavia, si può escludere l’esistenza di un monitoraggio continuo o totale che comporti una pressione costante ad adattarsi e ad agire. I dipendenti sono stati filmati essenzialmente solo per un breve periodo mentre attraversavano il cancello, quando entravano nello stabilimento e anche quando tenevano la carta d’identità lavorativa davanti al lettore di carte. La tua vita intima o privata non è stata influenzata. Una grave violazione dei diritti fondamentali non deriva dal fatto che l’imputato abbia aspettato molto tempo prima di visionare per la prima volta il materiale fotografico e lo abbia conservato fino ad allora (vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rns 30, 33, BAGE 163, 239) .38
(3) L’utilizzo della sequenza di immagini in questione nella presente controversia giuridica non costituisce un cambiamento di scopo ai sensi dell’art. Art. 6 Paragrafo 4 GDPR. Lo scopo astratto rilevante della raccolta dei dati (tutela degli interessi legittimi del convenuto e, in caso contrario, l’esecuzione di pretese di diritto civile) corrisponde allo scopo del trattamento dei dati nel presente procedimento (esecuzione di pretese di diritto civile) (cfr. Schulz in Gola/Heckmann GDPR/BDSG 3a edizione Art 6 GDPR paragrafo 135) . Anche se ci fosse un cambiamento di scopo dalla protezione della proprietà alla protezione del patrimonio, il bilanciamento degli interessi reciproci – spetta al giudice nazionale (cfr. CGCE 2 marzo 2023 – C-268/21 – [Norra Stockholm Bygg] Rn. 48) – dimostra che le posizioni del ricorrente in materia di diritti fondamentali ai sensi degli articoli 7 e 8 della RD non prevalgono sul diritto del convenuto ad una tutela giuridica effettiva contro – presunta – condotta intenzionale del proprio dipendente, garantito dall’articolo 47, paragrafo 2 della RG, che in concreto è particolarmente elevato.39
IV. A causa delle risultanze finora effettuate dal Tribunale del Lavoro, il Senato non può prendere una decisione definitiva sulla rivendicazione prioritaria contro il licenziamento straordinario senza preavviso. La sentenza d’appello non sembra corretta nel suo risultato (art. 561 ZPO) poiché la convenuta, come ha ipotizzato il tribunale del lavoro, con le sue conclusioni sarebbe esclusa dalla controversia giuridica per motivi di diritto costituzionale delle imprese, poiché ha dichiarato al comitato aziendale all’udienza ai sensi della sezione 102 BetrVG non si era presentata. Per l’accusa di licenziamento e la relativa ammissione della commissione non ha alcuna importanza se l’attore si è confermato nella lista dei presenti in qualità di portavoce della squadra o se un altro portavoce della squadra ha fatto una registrazione corrispondente (punto 19) . Non si tratta certamente di due circostanze di risoluzione diverse.40
V. Il rinvio da ciò richiesto comprende l’istanza contro la risoluzione ordinaria, l’istanza di scioglimento del convenuto e l’istanza per il rilascio di un certificato definitivo qualificato. Si è invece legalmente concluso il contenzioso giuridico relativo al rilascio di un certificato provvisorio qualificato (n. 12) .41
VI. Le seguenti ulteriori informazioni sono necessarie per la prosecuzione del processo di ricorso:42
1. Il Tribunale del Lavoro dovrà preliminarmente pronunciarsi sull’istanza prioritaria avverso il licenziamento straordinario del 5 ottobre 2019, la quale – prescindendo dalle altre circostanze licenziamentali citate dalla convenuta – è suscettibile di produrre effetti qualora si possa presumere che il l’attore ha effettuato il turno aggiuntivo il 2 giugno 2018 con l’intenzione di non farsi pagare dal convenuto (punto 16) .43
a) Il tribunale d’appello dovrà tener conto del fatto che l’argomentazione del convenuto circa il pagamento fraudolento del ricorrente per il turno di lavoro straordinario del 2 giugno 2018 deve essere considerata ammessa dopo la sua precedente ammissione ai sensi dell’articolo 138 comma 3 ZPO perché né lui né ha contestato in modo sufficientemente fondato (comma 18 ss.) né vale a suo favore un divieto di utilizzo di presentazioni materiali (comma 22 ss.) .44
b) Per far fronte all’onere della prova secondario che gli spetta, l’attore dovrebbe in primo luogo verificare se ha lasciato lo stabilimento il 2 giugno 2018 prima dell’inizio del turno, ma vi è anche rientrato “inosservato” prima dell’inizio del turno o se fosse stato presente ininterrottamente e avrebbe voluto rimanere nell’area della fabbrica. L’imputato spetterebbe quindi (solo) provare che questa rappresentazione non è corretta (vedi BAG 16 dicembre 2021 – 2 AZR 356/21 – Rn. 31 ss.) .45
c) Se l’attore afferma di essere rimasto sempre nell’area della fabbrica, il tribunale regionale del lavoro ne avrebbe la prova ai sensi degli articoli 371 e seguenti del ZPO esaminando visivamente la sequenza di immagini incriminata della videosorveglianza al cancello 5, che non è salvo eventuale divieto di sfruttamento (n. 22 ss.) far valere la tesi contraria della convenuta secondo cui l’attore ha lasciato i locali prima dell’inizio del turno. Se così fosse, si dovrebbe quindi presupporre che la rappresentazione dell’accusa di licenziamento (non lavoro di turno con intento di frode) fornita dall’imputato sia corretta. L’attore non poteva affermare in modo proceduralmente ammissibile di non aver lasciato lo stabilimento; Se l’avesse lasciato, vi sarebbe rientrato prima dell’inizio del suo turno.46
d) Dopo il rinvio, l’attore dovrebbe fornire prove motivate di aver inizialmente lasciato di nuovo la fabbrica, ma di essere uscito “inosservato” prima dell’inizio del turno – quando, attraverso quale ingresso? – rientrato e poi – dopo aver raggiunto in tempo la fonderia? – ha funzionato correttamente, il tribunale statale del lavoro – senza basarsi sulla sequenza di immagini della videosorveglianza al cancello 5 presentata dal convenuto – dovrà valutare ai sensi dell’articolo 286 comma 1 ZPO se ritiene provata la pretesa del ricorrente non entrare nuovamente nello stabilimento il 2 giugno 2018. La corte d’appello dovrà tenerne conto per formulare una condanna ai sensi di § 286 comma 1 ZPO è sufficiente un grado di certezza utile per la vita pratica e che metta a tacere i dubbi rimanenti senza escluderli completamente. Il tribunale potrebbe dover giustificare il motivo per cui non è stato in grado di superare i dubbi residui. In particolare, il mancato raggiungimento di un sufficiente grado di certezza non deve basarsi esclusivamente sul fatto che siano teoricamente ipotizzabili altre spiegazioni (cfr. BAG 11 giugno 2020 – 2 AZR 442/19 – Rn. 62, BAGE 171, 66) . Di conseguenza, il Tribunale del lavoro statale sarà pienamente convinto in conformità con. La tesi dell’imputato può eventualmente essere raggiunta anche solo considerando sufficientemente fondata, ma non credibile perché priva di ogni probabilità interna, la tesi contraria dell’attore relativa all’ingresso dall’ingresso principale (cfr. BGH 22 novembre 1994 – XI ZR 219/ 93 – alla II septies dei motivi) . In questo contesto potrebbe anche svolgere un ruolo se l’attore nella presente controversia legale e gli attori nel procedimento parallelo deciso dal Senato lo stesso giorno – 2 AZR 297/22 e 2 AZR 298/22 – visitassero lo stabilimento a brevi intervalli prima dell’inizio del turno straordinario è uscito dalla porta 5, ma ha voluto rientrarvi in tempo “inosservato” attraverso un’altra porta.47
e) Se l’attore dimostra che prima dell’inizio del turno avrebbe voluto rientrare nello stabilimento attraverso un tornello, l’affermazione del convenuto e, se necessario, le relative prove avrebbero un significato procedurale, per cui ciò può essere escluso previa registrazione elettronica delle presenze e videosorveglianza. Non costituisce violazione dei diritti personali generali del ricorrente il fatto che egli non sia stato incluso in una misura di sorveglianza. Non vi è stata inoltre alcuna grave violazione dei diritti fondamentali associati alla registrazione elettronica delle presenze e alla videosorveglianza aperta ai cancelli degli stabilimenti (punti 33, 37) .48
f) Contrariamente a quanto ha ritenuto il Tribunale del lavoro, al convenuto non è impedito di introdurre nel procedimento i dati ottenuti utilizzando la registrazione elettronica delle presenze per motivi di diritto costitutivo del lavoro.49
aa) La corte d’appello si è basata su un accordo aziendale concluso il 17 ottobre 2007 per lo stabilimento H sull’introduzione della registrazione elettronica delle presenze (BV 2007), secondo il quale “non avviene alcuna valutazione personale dei dati”. Con la conclusione di questo accordo operativo, il cui ulteriore contenuto non emerge dalla sentenza impugnata, la convenuta ha dato sicurezza all’attore nel senso di una “legittima aspettativa di riservatezza”. Ciò vale anche nel caso in cui il comitato aziendale abbia successivamente acconsentito alla valutazione dei lettori di carte, poiché il contratto aziendale – secondo il Tribunale del lavoro statale – garantisce ai dipendenti i “propri diritti”.50
bb) Si può presumere che la BV 2007 contenga la normativa utilizzata dal Tribunale del lavoro statale. Tuttavia, ciò non potrebbe fondare una legittima aspettativa di privacy per quanto riguarda la manipolazione dell’orario di lavoro accusata del querelante o “cullare il querelante nella sicurezza” per quanto riguarda la commissione e la punizione della sua presunta manipolazione dell’orario di lavoro (vedi punto 36) .51
(1) Il tribunale di grado inferiore ha ritenuto senza giustificazione che la BV 2007 mirasse a esentare una violazione intenzionale degli obblighi dalla sanzione legale. Una tale interpretazione desta preoccupazioni perché l’annullamento delle sanzioni, anche in caso di gravi violazioni dei doveri, difficilmente sarebbe compatibile con il “benessere dell’azienda” menzionato nella Sezione 2 Paragrafo 1 BetrVG come obiettivo della cooperazione tra le parti aziendali. La norma, come intesa dalla corte d’appello, andrebbe a vantaggio anche, senza motivo apparente, del delinquente intenzionale che ha agito in violazione del contratto.52
(2) Tuttavia, il Tribunale del lavoro statale non deve indagare ulteriormente sul contenuto della BV 2007. Anche se ciò dovesse essere interpretato secondo il suo punto di vista, la violazione da parte del convenuto del “divieto di valutazione” ivi previsto non comporterebbe l’impossibilità per i tribunali del lavoro di basare la loro decisione sugli accertamenti introdotti nella controversia legale .53
(a) Le parti sociali non hanno il potere di stabilire un divieto di sfruttamento che vada oltre le norme processuali formali del codice di procedura civile o di limitare di fatto la capacità del datore di lavoro di esporre fatti riguardanti eventi aziendali in una controversia legale individuale (già dubbio BAG 31 gennaio 2019 – 2 AZR 426 /18 – Rn. 68, BAGE 165, 255) e per dimostrarlo. Si può lasciare aperta la questione se ed eventualmente in quale misura il datore di lavoro possa impegnarsi nei confronti del comitato aziendale a non utilizzare i risultati dell’elaborazione dei dati. I soggetti esecutori hanno la facoltà, nell’ambito delle loro competenze, di progettare ed eventualmente ampliare i diritti di partecipazione previsti dalla costituzione dell’opera. Non si limitano agli argomenti normativi menzionati nella Sezione 88 BetrVG. L’elenco delle questioni ivi menzionate non è esaustivo. Tuttavia, le parti operanti non hanno il potere di intervenire nel procedimento giudiziario. Questo non è a loro disposizione. Piuttosto, la sua progettazione spetta al legislatore. Solo questo è autorizzato a determinare lo svolgimento del procedimento giudiziario (cfr. BAG 18 agosto 2009 – 1 ABR 49/08 – Rn. 20, BAGE 131, 358) . Ciò comprende anche la possibilità, secondo gli artt. 138, 286 cpv. 1 ZPO, di introdurre fatti nel procedimento e di dimostrarli, nonché la relativa valutazione da parte del tribunale.54
(b) Inoltre, il diritto alla disdetta straordinaria del contratto di lavoro – che qui viene dichiarato prioritario – ai sensi dell’articolo 626 del Codice civile tedesco (BGB) non può essere rinunciato o reso significativamente più difficile in anticipo e che qualsiasi contraria 134 del Codice civile tedesco (BGB) è nulla (BAG 15 marzo 1991 – 2 AZR 516/90 – a II 2 d aa dei motivi; 28 ottobre 1971 – 2 AZR 15/71 – a II 2 b dei motivi; 18 dicembre 1961 – 5 AZR 104/61 – a 1 dei motivi) . Tuttavia, il divieto per il datore di lavoro di prendere in considerazione i risultati di una misura di sorveglianza che (dovrebbero) indicare un comportamento adeguato “di per sé” renderebbe almeno molto più difficile il diritto al licenziamento straordinario. § 626 BGB da introdurre in un processo di protezione dal licenziamento. Perché queste sono regolarmente le fonti di conoscenza più affidabili (vedi BAG 23 agosto 2018 – 2 AZR 133/18 – Rn. 27, BAGE 163, 239) .55
c) Resta tuttavia da vedere se il divieto contenuto in un contratto aziendale per il datore di lavoro di introdurre in un processo di tutela dal licenziamento i risultati di una misura di sorveglianza, soprattutto aperta, che indichino una violazione intenzionale dei doveri da parte del dipendente non sarebbe altrettanto efficace. essere contrario al diritto comunitario. Ciò è probabilmente confermato dal fatto che, secondo l’articolo 1, paragrafo 1, il RGPD mira a garantire un’armonizzazione sostanzialmente completa delle disposizioni legali nazionali sulla protezione dei dati personali e degli Stati membri o dei gestori, se beneficiano di una clausola di apertura come quella di cui all’articolo 88, paragrafo 1 GDPR, devono esercitare la loro discrezionalità alle condizioni e nei limiti delle disposizioni del GDPR e pertanto possono adottare solo disposizioni di legge o contratti collettivi che non ne violino il contenuto e obiettivi del GDPR (inclusa la tutela della libera circolazione dei dati). Ciò vale in particolare per i requisiti contenuti nell’articolo 6 del GDPR (cfr. CGCE 30 marzo 2023 – C-34/21 – [Consiglio principale del personale degli insegnanti] punti 51, 59, 68 ss. e 79) . Il regolamento lo prevede al paragrafo 1, comma 1. 1 lettera f significa tuttavia che determinati trattamenti di dati personali sono esclusi nonostante il legittimo interesse del responsabile – soprattutto in caso di atti intenzionali – indipendentemente da considerazioni individuali. Sembra anche dubbio che tali divieti di sfruttamento siano misure adeguate e speciali da proteggere, tra le altre cose. gli interessi legittimi e i diritti fondamentali dei datori di lavoro interessati iSv. Art. 88 comma 2 GDPR (cfr. CGCE 30 marzo 2023 – C-34/21 – [Consiglio principale del personale docente] Rn. 64) .56
g) Il tribunale statale del lavoro non dovrà inoltre chiarire se i diritti di codeterminazione del comitato aziendale siano stati ignorati al momento dell’installazione della videosorveglianza, nella misura in cui le conoscenze acquisite da essa dovrebbero essere rilevanti. Lo scopo di protezione dell’art. 87 cpv. 1 n. 6 e dell’art. 77 BetrVG non richiede un divieto di utilizzo, in ogni caso se l’utilizzo delle informazioni o delle prove – come in questo caso – è consentito secondo i principi generali (cfr . BAG 20 ottobre , 2016 – 2 AZR 395/15 – Rn. 36, BAGE 157, 69; 22 settembre 2016 – 2 AZR 848/15 – Rn. 44, BAGE 156, 370) .57
h) Se il Tribunale del lavoro statale non fosse convinto dell’“atto” del querelante, ma confermasse che esiste un forte sospetto al riguardo, si dovrebbe verificare se il querelante – di cui tutto parla – è stato adeguatamente ascoltato ( per i requisiti vedi BAG 25 aprile 2018 – 2 AZR 611/17 – Rn. 31 ss.) .58
i) Infine, potrebbe essere necessario discutere se il convenuto ha rispettato il termine di dichiarazione di cui all’articolo 626 comma 2 del Codice civile tedesco (BGB) e se il comitato aziendale – che è contrario al parere del tribunale del lavoro – era adeguatamente organizzato in conformità con la legge. § 102 comma 1 BetrVG sulla prevista risoluzione straordinaria.59
2. Qualora la corte d’appello accogliesse il ricorso principale avverso la risoluzione straordinaria senza preavviso del 5 ottobre 2019, si dovrebbe decidere sul ricorso ausiliario spurio avverso la risoluzione ordinaria del 9 ottobre 2019. A questo proposito può essere importante notare che il termine di dichiarazione di cui all’articolo 626 comma 2 BGB non si applica alla cessazione regolare del reato o al sospetto di cessazione (vedi BAG 31 gennaio 2019 – 2 AZR 426/18 – Rn. 31, BAGE 165, 255) .60
3. Se il Tribunale del Lavoro dovesse accogliere anche il falso ricorso alternativo diretto contro il licenziamento ordinario, la domanda di scioglimento, legittimamente messa agli atti dal convenuto in secondo grado, sarebbe soggetta a decisione ai sensi dell’articolo 9 Paragrafo 1 frase 2 KSchG. Tutto fa pensare che l’imputato non abbia effettivamente introdotto nel procedimento le ragioni rilevanti. Non ha motivato la richiesta né nel verbale della corte d’appello né in un documento scritto ricevuto dalla corte come documento elettronico ai sensi della sezione 46g frase 1 ArbGG (vedi Siegmund NJW 2023, 1681, 1683) . Tuttavia, ciò non richiede una decisione. Il convenuto può presentare in formato elettronico la propria memoria scritta (cartacea) motivante la richiesta di scioglimento, che prima veniva consegnata solo al momento della nomina, nel corso del processo di ricorso continuato. È probabile che la domanda di scioglimento venga accolta se l’argomentazione del convenuto in secondo grado e in appello riguardo agli argomenti processuali non veritieri dell’attore resta indiscussa o viene dimostrata.61
4. Infine, ai sensi dell’articolo 139 comma 1 frase 2 ZPO, il Tribunale del Lavoro dovrà adoperarsi per chiarire se il ricorrente abbia effettivamente richiesto il rilascio di un certificato finale qualificato solo in caso di insuccesso della domanda – cosa che non è avvenuta verificarsi (n. 12) per il rilascio di un certificato provvisorio qualificato ovvero in caso di perdita di una delle istanze di tutela contro il licenziamento o contro la richiesta di scioglimento del convenuto, ossia di risoluzione del rapporto di lavoro.62
5. Nel decidere sulle spese di primo grado, il tribunale statale del lavoro, anche se respinge integralmente il ricorso del convenuto e respinge la sua domanda di scioglimento presentata in secondo grado, dovrà tenere conto del fatto che l’attore ha ritirato la domanda. domanda generale di dichiarazione inizialmente presentata (§ 269 comma 3 frase 2 ZPO) e il tribunale del lavoro ha anche respinto giuridicamente in quanto irricevibili due presunte ulteriori domande generali di dichiarazione. Tali “richieste” potrebbero non aver aumentato l’ importo delle spese oggetto della controversia in primo grado. Tuttavia, ciò non significa che il ritiro parziale o il rigetto della causa non avrebbe un impatto sul ricorrente creando un valore di costo fittizio nella controversia (cfr. Niemann NZA 2019, 65, 71) . Per quanto riguarda la domanda ritirata, la situazione potrebbe essere diversa se – come molti suggeriscono – non si trattasse di una domanda principale ma di una domanda ausiliaria spuria. Inoltre, la corte d’appello dovrà decidere sulle spese del procedimento di secondo grado e dell’appello.
Costantemente monitorato”: la resistenza alla sorveglianza dell’intelligenza artificiale sul lavoro
Gli accademici criticano il monitoraggio algoritmico dei lavoratori e chiedono standard più severi, ma i sindacati statunitensi sono stati lenti ad agire
Steven Serra
Dom 7 gennaio 2024 13:00 CET
FGli algoritmi rom licenziano il personale senza intervento umano per software che tengono sotto controllo le pause bagno, tecnologie tra cui l’intelligenza artificiale stanno già sconvolgendo i lavoratori e destabilizzando i luoghi di lavoro.
Attenzione alle “stronzate”: perché l’intelligenza artificiale generativa è una minaccia così reale e imminente per il nostro modo di vivere | André Spicer
André Spicer
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Nei call center, i sistemi di intelligenza artificiale registrano e valutano il modo in cui i lavoratori gestiscono le chiamate, spesso assegnando voti negativi per non essersi attenuti al copione. Alcuni software aziendali spiano i lavoratori per vedere se scrivono mai la parola “sindacato” nelle loro e-mail.
Man mano che le tecnologie diventano sempre più sofisticate nel monitorare, sorvegliare e velocizzare i tempi dei lavoratori, molti esperti sul posto di lavoro affermano che le aziende, i sindacati e il governo statunitensi non stanno facendo abbastanza per proteggere i lavoratori dagli svantaggi della tecnologia.
“I lavoratori vengono costantemente monitorati e gli strumenti di monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale possono commettere errori che possono tradursi in tagli salariali o licenziamenti ingiusti”, ha affermato Virginia Doellgast, professoressa di rapporti di lavoro alla Cornell. “I lavoratori spesso non sanno quali strumenti di monitoraggio vengono utilizzati, quali dati raccolgono gli strumenti o come tali dati vengono utilizzati per valutare le loro prestazioni.”
In Europa, a differenza di Stati Uniti e Canada, molti sindacati spingono da anni per protezioni contro alcuni dei modi più intrusivi con cui gli strumenti di intelligenza artificiale tracciano e gestiscono i lavoratori. “Questa questione deve ancora essere posta al centro dell’attenzione dei sindacati del Nord America”, ha affermato Valerio De Stefano, professore di diritto del lavoro alla York University di Toronto, che ha scritto ampiamente sull’uso dell’intelligenza artificiale sul posto di lavoro . “I sindacati in Europa sono più consapevoli dell’uso delle tecnologie dal punto di vista della sorveglianza. Questo non è qualcosa su cui i sindacati del Nord America si sono concentrati”.
In alcune aziende tedesche, dicono gli esperti del lavoro, i lavoratori hanno ottenuto tutele che potrebbero diventare modelli per i lavoratori statunitensi e canadesi. Presso Deutsche Telekom, la più grande azienda di telecomunicazioni tedesca, i lavoratori hanno ottenuto il divieto contro gli algoritmi di licenziare i lavoratori senza alcun coinvolgimento umano, nonché il divieto di utilizzare i dati raccolti dal monitoraggio digitale per disciplinare o licenziare singoli lavoratori.
“In Europa, i lavoratori hanno diritti più forti per ottenere informazioni e partecipare al processo decisionale”, ha affermato Doellgast. “Negli Stati Uniti, dove è presente un sindacato, i lavoratori hanno alcuni diritti di informazione sull’intelligenza artificiale e, si spera, hanno voce in capitolo su come viene utilizzata. Dove i sindacati non sono presenti, i lavoratori non hanno diritti di informazione e tutto ciò che vedono sono gli effetti delle tecnologie su di loro”.
Consapevoli degli svantaggi dell’intelligenza artificiale e della gestione algoritmica, i sindacati statunitensi stanno iniziando a spingere di più per le tutele. Ad esempio, in alcuni call center, il sindacato Communications Workers of America ha ottenuto non solo l’obbligo per i manager di avvisare i lavoratori ogni volta che registrano le loro chiamate, ma garantisce anche che la direzione registrerà le chiamate solo a fini di formazione per aiutare a migliorare le prestazioni dei dipendenti – e non per valutare o disciplinare i lavoratori.
Dan Reynolds, vicedirettore della ricerca dei Communications Workers, ha affermato che il sindacato è da tempo preoccupato di come le nuove tecnologie influiscono sull’occupazione. “L’intelligenza artificiale è una nuova tecnologia spesso utilizzata per accelerare il lavoro, dequalificare il lavoro, rendere i luoghi di lavoro più stressanti e rendere i lavori più impegnativi”, ha affermato. “La nostra preoccupazione riguardo all’intelligenza artificiale non riguarda solo i suoi effetti sul numero di posti di lavoro, ma come influenzerà la qualità dei posti di lavoro”.
“Il nostro obiettivo non è fermare le nuove tecnologie”, ha continuato Reynolds, “ma garantire che i vantaggi di queste nuove tecnologie siano ampiamente ed equamente condivisi”.
La Germania ha leggi che impongono alle aziende di informare i propri comitati aziendali sull’intelligenza artificiale e sulle altre nuove tecnologie che intendono adottare. La maggior parte delle aziende tedesche dispone di comitati aziendali, ovvero comitati di gestione dei lavoratori che discutono di tutto, dagli orari delle ferie al ritmo di lavoro e agli effetti dell’intelligenza artificiale.
Per evitare che i dati sulle prestazioni basati sull’intelligenza artificiale vengano utilizzati contro i singoli lavoratori, i comitati aziendali di Deutsche Telekom hanno convinto l’azienda ad accettare che i dati sulle prestazioni possano essere raccolti solo per gruppi di almeno cinque dipendenti . L’azienda ha inoltre accettato di non utilizzare l’intelligenza artificiale per raccogliere determinate informazioni personali sui dipendenti, come le loro opinioni politiche o orientamenti sessuali .
Doellgast e De Stefano – che hanno curato una recente rivista accademica sull’intelligenza artificiale e il lavoro – affermano che il contributo dei lavoratori sulle nuove tecnologie spesso riduce la loro invasività e altri aspetti negativi per i lavoratori, rendendo al contempo l’introduzione delle tecnologie più agevole e produttiva. Inoltre, quando i lavoratori hanno voce in capitolo sulle nuove tecnologie, ciò spesso riduce la resistenza dei dipendenti a tali tecnologie.
De Stefano ha sottolineato alcuni problemi legati all’utilizzo dell’intelligenza artificiale per assumere e disciplinare i lavoratori. “Queste macchine sono, in molti casi, inaffidabili”, ha detto. “Hanno alcuni risultati discriminatori, soprattutto nelle assunzioni. Queste macchine sono fondamentalmente basate su un lavoratore standard: normalmente lavoratori bianchi, in prima età, di sesso maschile. Chiunque non corrisponda a quel benchmark rischia di essere giudicato erroneamente da questi algoritmi.”
L’AFL-CIO, la principale federazione sindacale statunitense, ha creato un istituto tecnologico per sviluppare competenze e politiche sull’intelligenza artificiale e altre tecnologie. L’istituto sta pianificando sessioni di formazione per educare i leader sindacali e gli strateghi sulle nuove tecnologie.
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“Nei settori in cui sono presenti il monitoraggio delle prestazioni e la gestione algoritmica, si può avere un impatto molto negativo”, ha affermato Amanda Ballantyne, direttrice dell’istituto tecnologico dell’AFL-CIO. “Se ci si immerge in un settore come Amazon, molti lavoratori indossano dispositivi indossabili che tengono traccia di ogni movimento compiuto dal corpo, ovunque vadano, quanto velocemente completano le attività, per quanto tempo sono senza lavoro, quanto tempo trascorrono in bagno. È [gestione scientifica] sotto steroidi.
Ballantyne ha affermato che il sindacato dei lavoratori delle comunicazioni, il sindacato dei lavoratori degli alberghi, Sag-Aftra e la Writers Guild hanno contribuito ad aprire la strada alle nuove tecnologie. Dopo il recente sciopero di 148 giorni, la Writers Guild ha ottenuto protezioni che richiedono agli studi di rivelare se il materiale fornito agli scrittori è stato sviluppato con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
La Camera di Commercio degli Stati Uniti afferma che l’intelligenza artificiale e l’analisi possono avere vantaggi sostanziali per i lavoratori e la produttività, fornendo informazioni sulle prestazioni dei lavoratori e consentendo coaching e formazione mirati per migliorare le prestazioni.
La sorveglianza dell’intelligenza artificiale, afferma la Camera, può anche aiutare a prevenire la violenza sul posto di lavoro, ad esempio monitorando comportamenti anomali sul posto di lavoro. Mentre molti lavoratori criticano l’uso di monitor “indossabili”, la Camera afferma che “sensori intelligenti e dispositivi indossabili possono aiutare” a proteggerli, rilevando potenziali incidenti, rischi ergonomici, sostanze chimiche tossiche e imminente stress termico.
“Sebbene ci siano evidenti vantaggi” per l’intelligenza artificiale, ha affermato Michael Richards, direttore politico del centro di impegno tecnologico della Camera , “comprendiamo che ci siano preoccupazioni legittime riguardo all’uso della tecnologia”.
I datori di lavoro “riconoscono che impegnarsi in un dialogo inclusivo sull’uso delle nuove tecnologie è fondamentale per promuovere una cultura di fiducia con i dipendenti”, ha aggiunto.
Annette Bernhardt, direttrice del programma di tecnologia e lavoro presso l’UC Berkeley Labor Center, ha indicato il settore dell’assistenza domiciliare come un esempio in cui le nuove tecnologie rendono la vita dei lavoratori più stressante. Molti assistenti domiciliari devono seguire meticolosamente le istruzioni inviate dalle app, riportando al contempo ogni singola attività completata.
“Abbiamo bisogno di standard lavorativi forti riguardo all’uso di queste tecnologie”, ha affermato Bernhardt. “Dobbiamo sostenere i sindacati mentre contrattano su queste tecnologie. La cosa più importante è che dobbiamo garantire che i lavoratori abbiano un posto al tavolo su queste tecnologie fin dall’inizio, non solo quando vengono implementate”.
Bernhardt ha aggiunto: “Quando i lavoratori sono al tavolo, significa una migliore adozione della tecnologia per loro e risultati migliori per i datori di lavoro”.
Beh, il 2023 non è andato esattamente secondo i piani, vero?
Qui nel Regno Unito, il primo ministro Rishi Sunak ci aveva promesso un governo di stabilità e competenza – senza dimenticare professionalità, integrità e responsabilità – dopo il giro sulle montagne russe di Boris Johnson e Liz Truss. Ricordi Lisa? In questi giorni sembra una commedia dimenticata da tempo. Invece, Sunak ci ha portato ancora più lontano, attraverso lo specchio, nello psicodramma conservatore.
Altrove il quadro non è stato migliore. Negli Stati Uniti, Donald Trump è ora il favorito di molte persone per diventare nuovamente presidente. In Ucraina la guerra si trascina senza che se ne veda la fine. Il pericolo che il resto del mondo si stanchi della battaglia e perda interesse è fin troppo evidente. Poi c’è la guerra in Medio Oriente e senza dimenticare la crisi climatica…
Ma un nuovo anno porta nuove speranze. Ci sono elezioni in molti paesi, tra cui il Regno Unito e gli Stati Uniti. Dobbiamo credere nel cambiamento. Che qualcosa di meglio è possibile. Il Guardian continuerà a coprire eventi provenienti da tutto il mondo e il nostro reporting ora sembra particolarmente importante. Ma gestire un’organizzazione di raccolta di notizie non è economico.
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