Quand’anche la conservazione del rapporto di lavoro del dipendente divenuto disabile comporti costi aggiuntivi in considerazione della sua ridotta produttività, dovuta a ragioni di salute, nondimeno questo non sarebbe di per sé sufficiente ad escludere l’esistenza di «accomodamenti ragionevoli» – che in astratto possono consistere anche nell’adibizione del lavoratore a diverse mansioni, pure inferiori e vengono meno solo laddove comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro.
Il datore non può licenziare il dipendente divenuto disabile anche se la conservazione del posto impone all’azienda di sostenere costi aggiuntivi.
Il tutto grazie alla direttiva 78/2000/Cee, recepita dall’Italia con il decreto legge 76/2013, che prevede un tendenziale divieto di licenziamento del lavoratore che pure è diventato inabile alla mansione: spetta al datore trovare «ragionevoli soluzioni organizzative» per consentire all’interessato di svolgere il lavoro, a meno che la circostanza non imponga al datore un onere finanziario spropositato.
Il Divieto di Licenziamento del Lavoratore Inabile alla Mansione secondo il Decreto Legge 76/2013
Il Decreto Legge 76/2013 ha introdotto importanti modifiche al diritto del lavoro italiano, tra cui una norma che tende a vietare il licenziamento del lavoratore che è diventato inabile alla mansione.
Il Decreto Legge 76/2013, noto anche come “Decreto del Fare”, è stato introdotto con l’obiettivo di semplificare e accelerare le procedure amministrative e giudiziarie in molti settori, tra cui il diritto del lavoro.
Secondo il Decreto , un lavoratore che diventa inabile alla mansione non può essere licenziato. Questo significa che, se un lavoratore non è più in grado di svolgere le sue mansioni a causa di un cambiamento nelle sue capacità fisiche o mentali, l’impresa non può licenziarlo.
È importante notare che questo divieto si applica solo se l’inabilità è dovuta a cause non imputabili al lavoratore. Se l’inabilità è causata da comportamenti negligenti o dolosi del lavoratore, l’impresa può avere il diritto di licenziarlo.
L’ ordinanza 31471, sezione Lavoro del 13-11-2023
Con l’ordinanza n.31471/23, pubblicata il 13 novembre 2023, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – ha respinto il ricorso presentato dal datore di lavoro contro un dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo, dovuto alla sua inidoneità alla mansione.
L’azienda, che gestisce un laboratorio di prodotti in ceramica, ha deciso di licenziare il collaudatore a causa di una presunta inidoneità alla mansione. Tuttavia, il dipendente sostiene di essere ancora in grado di svolgere il lavoro, seppur con alcune limitazioni.
Il dipendente è stato precedentemente reintegrato nel suo posto di lavoro grazie alla sentenza del Tribunale e ha sempre sostenuto di poter continuare la propria attività lavorativa, nonostante le limitazioni.
Il datore ritiene legittimo il recesso perché di fronte alla mutata condizione fisica del dipendente verrebbe meno l’interese dell’azienda a un adempimento parziale.
Per la Corte d’appello, il provvedimento di espulsione adottato dal datore di lavoro è stato considerato discriminatorio per motivi di handicap. La Corte ha stabilito che tale provvedimento doveva essere valutato in base alle disposizioni della direttiva 78/2000/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione.
In realtà vanno applicati i principi della direttiva Ue perché sussistono sia il presupposto oggettivo, cioè il fatto che la controversia riguarda le condizioni di lavoro, sia il fattore soggettivo dell’handicap del dipendente.
Secondo il comma 3 bis che il decreto legge 76/2013, convertito dalla legge 99/2013, ha inserito all’articolo 3 del decreto legislativo 216/03, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare
La Corte, inoltre, evidenziava che “per la tutela del lavoratore che viene a trovarsi in una situazione di duratura menomazione che non lo ponga in situazione di uguaglianza con gli altri lavoratori, l’art. 5 della citata direttiva prevede ‘soluzioni ragionevoli’, con l’unica eccezione del caso in cui tali soluzioni ‘richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato’ “.
“Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (…) nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
È stata la Corte di Giustizia a definire gli accomodamenti ragionevoli come delle modifiche e degli adattamenti che però non arrechino un onere eccessivo e sproporzionato all’organizzazione dell’azienda e agli altri lavoratori (CGUE, 4 luglio 2013).
In astratto le soluzioni organizzative previste dalla legge possono consistere anche nell’adibire il lavoratore a mansioni diverse, pure inferiori: l’obbligo di accomodamenti ragionevoli viene meno soltanto se il sacrificio economico imposto all’impresa è spropositato.
In conclusione l’autorità giudiziaria deve indagare la sussistenza, all’interno della struttura dell’azienda, di mansioni che possono eventualmente adattarsi all’inabilità del lavoratore.
A quel punto può giudicare legittimo il licenziamento non solo quando risultano inesistenti accorgimenti pratici utili al suo mantenimento, ma anche quando viene accertata l’impossibilità di affidargli mansioni equivalenti o anche inferiori senza stravolgere l’organizzazione dell’azienda.