Il recesso nel rapporto di lavoro dirigenziale
L’ordinamento giuridico del lavoro in Italia impone al datore di lavoro l’obbligo di motivare adeguatamente il licenziamento dei dipendenti. La legge n. 604 del 15 luglio 1966 limita le possibilità di licenziamento, consentendolo solo in specifiche circostanze e richiedendo una motivazione chiara e valida comunicata contemporaneamente alla decisione di licenziare.
La figura del dirigente in azienda
Nel tessuto normativo italiano, il trattamento del dirigente in caso di licenziamento si configura come un’eccezione rispetto alla generalità dei lavoratori subordinati.
La figura del dirigente, infatti, si colloca in una posizione di rilievo all’interno dell’organizzazione aziendale, spesso fungendo da alter ego dell’imprenditore e condividendo con quest’ultimo una sfera di responsabilità manageriale e decisionale
La peculiarità del rapporto dirigenziale trova fondamento nella particolare intensità del vincolo fiduciario che sussiste tra l’apice della gerarchia aziendale e l’imprenditore. Tale vincolo si manifesta non solo nella condivisione delle scelte strategiche ma anche nella gestione operativa dell’azienda
il licenziamento ad nutum
La normativa vigente riflette questa vicinanza, concedendo al datore di lavoro la possibilità di recedere dal rapporto di lavoro dirigenziale senza l’obbligo di motivazione, il cosiddetto licenziamento ad nutum.
Questa facoltà è stata oggetto di ampio dibattito, ma la dottrina e la giurisprudenza hanno più volte confermato che tale prerogativa è giustificata dalla necessità di preservare la libertà imprenditoriale nelle scelte legate a figure chiave per la vita aziendale.
La buona fede e correttezza
Nonostante tale libertà, il recesso non deve mai essere esercitato in maniera arbitraria o abusiva.
La giurisprudenza ha chiarito che, anche in assenza di un obbligo di motivazione, il licenziamento del dirigente deve sempre rispettare i principi generali di buona fede e correttezza, sanciti dall’articolo 1375 del codice civile.
Sebbene il dirigente goda di un regime speciale in tema di licenziamento, l’esercizio del recesso datoriale rimane comunque vincolato ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, elementi indispensabili per garantire la correttezza delle relazioni lavorative ai più alti livelli gerarchici.
La giustificatezza
Nel dibattito giuridico relativo alla disciplina del licenziamento dei dirigenti, assume particolare rilevanza la nozione di “giustificatezza” del recesso, un concetto che la giurisprudenza ha qualificato come di derivazione negoziale e che, pertanto, deve essere interpretato alla luce delle regole dell’ermeneutica contrattuale
La regolamentazione collettiva ha contribuito a delineare tale nozione, distinguendola dalle motivazioni di licenziamento previste dalla legge per gli altri lavoratori.
La “giustificatezza“, nel contesto del licenziamento del dirigente, si concreta ogniqualvolta il recesso non sia arbitrario o pretestuoso e sia invece sostenuto da una motivazione seria e apprezzabile, così come stabilito dalla sentenza della Cassazione n. 23894 del 2 ottobre 2018
anche una singola esternazione
È interessante notare come la giurisprudenza abbia sottolineato che anche una singola esternazione del dirigente può costituire una motivazione congrua a giustificare il licenziamento, purché tale da escludere l’arbitrarietà del recesso datoriale.
In questo senso, il comportamento del dirigente posto a base del recesso deve essere tale da arrecare un pregiudizio all’impresa, anche potenziale, sufficiente a rendere ragionevole e giustificato il licenziamento.
La recente sentenza della Cassazione ha ribadito che eventuali comportamenti del dirigente che possano pregiudicare l’immagine o l’operatività dell’azienda possono costituire un giustificato motivo per il recesso datoriale, pur nella sua forma ad nutum.
la distinzione tra giustificatezza e giusta causa
La distinzione tra “giustificatezza” e “giusta causa” è fondamentale: mentre la giusta causa implica una violazione così grave da non permettere la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, la giustificatezza si basa su un’analisi più ampia e meno stringente delle ragioni sottostanti il recesso, che devono comunque essere valutate con attenzione per escludere ogni possibile arbitrio.
Solo la giusta causa legittima il c.d. licenziamento in tronco, senza obbligo di preavviso a carico del datore di lavoro.
A tal proposito, la giurisprudenza ha precisato che “la giusta causa, che esonera il datore di lavoro dall’obbligo di concedere il preavviso o di pagare l’indennità sostitutiva, non coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di lavoro soltanto dall’obbligo di pagare l’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che, valutato in concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto” (ex multis Cass. n. 6110 del 17.3.2014, Cass. n. 34736 del 30.12.2019).
Tale orientamento è integrato dal richiamo al filone giurisprudenziale che valorizza il vincolo fiduciario ai fini della giustificatezza del licenziamento sotto il profilo soggettivo, la cui lesione non deve essere grave e irrimediabile come nell’ipotesi del licenziamento per giusta causa.
ipotesi di giustificatezza
La giustificatezza deve ritenersi integrata ogni qualvolta si determini un disallineamento tra le politiche imprenditoriali, definite dai vertici aziendali, e la visione strategica del dirigente che abbia espressamente criticato le prime, affermando di non condividerle (ex multis Cass. n. 1424 del 1.2.2012).
Sotto altro profilo, è stata riconosciuta la giustificatezza del licenziamento irrogato al dirigente che aveva spedito al proprio superiore numerose comunicazioni scritte dal tenore molto rigido, o ricche di lamentele nei confronti della direzione, prive di un riscontro fattuale, o, ancora, dirette a seminare disaccordo tra gli altri dirigenti (Cass. n. 3527 del 6.4.1998, Cass. n. 8934 del 12.10.1996).
la rilevanza dei comportamenti extra lavorativi
Ma l’intensità del vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto dirigenziale espande i propri effetti anche su aspetti apparentemente estranei al rapporto di lavoro. Infatti, la Corte ha ritenuto giustificati i licenziamenti motivati dalla inadeguatezza del dirigente rispetto alle aspettative del datore di lavoro riconoscibili ex ante, o da un’importante deviazione della linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamenti extra lavorativi che incidano sull’immagine aziendale (Cass. n. 25145 del 13.12 2010, Cass. n. 18998 del 2.12.2010, Cass n. 15496 dell’11.6.2008).
Cass. Sez. Lav. 2 novembre 2023, n. 30464
La nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente non coincide con quella di “giusta causa” ex art. 2119 c.c. Pertanto essa sussiste in concreto tutte le volte in cui il licenziamento si riveli non pretestuoso o arbitrario, bensì la conseguenza di fatti che abbiano incrinato l’affidabilità e la peculiare fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel dirigente.
I fatti
Nel recente verdetto della Cassazione, Sez. Lav. 2 novembre 2023, n. 30464, si è affrontato il tema del licenziamento disciplinare di un dirigente, mettendo in luce la rilevanza della fiducia e dell’affidabilità nel rapporto di lavoro e distinguendo tra i concetti di “giustificatezza“, “giusta causa” e “giustificato motivo”.
Il caso in esame riguardava un dirigente che era stato licenziato per reiterate assenze dal lavoro e per essere stato irreperibile durante le visite mediche di controllo. Il Tribunale di Napoli ha rigettato l’impugnazione del dirigente, decisione confermata dalla Corte d’Appello. La Corte di Cassazione ha ribadito l’importanza della corretta condotta del lavoratore, sottolineando che l’irreperibilità, anche se temporanea, può ledere il rapporto di fiducia tra le parti.
La Corte territoriale riteneva che «risulta documentalmente dimostrato che in occasione delle due ultime visite – del 15 e del 18 agosto 2016 – il medico sia riuscito ad entrare nello stabile di Via Privata delle Terme n. 13/D ed abbia lasciato un biglietto di avviso nella cassetta postale della Barzan, con l’invito a recarsi a visita presso l’INPS».
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione
La Corte di cassazione rigetta il ricorso, ritenendo immune da vizi l’iter argomentativo della Corte territoriale «senz’altro conforme a quanto già affermato dalla Suprema Corte», secondo cui «in tema di licenziamento del dirigente, la nozione di “giustificatezza” non coincide con quelle di “giusta causa” e di “giustificato motivo” proprie dei rapporti di lavoro delle altre categorie di lavoratori subordinati
«poiché la giustificatezza del recesso non si identifica con la giusta causa, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, il licenziamento non deve necessariamente costituire una “extrema ratio”, da attuarsi solo in presenza di situazioni così gravi da non consentire la prosecuzione neppure temporanea del rapporto, e allorquando ogni altra misura si rivelerebbe inefficace, ma può conseguire ad ogni infrazione che incrini l’affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente».
In sostanza la Suprema Corte rileva che «ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente non è necessaria un’analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà o la pretestuosità del recesso datoriale».
Inoltre, la Corte di cassazione ritiene che, nel caso in esame, «la verifica di proporzionalità» è «del tutto superflua» in quanto «l’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale esclude l’arbitrarietà e la pretestuosità del licenziamento e tanto basta a far ritenere il recesso datoriale assistito dalla “giustificatezza”. Ne deriva la conformità a diritto della decisione d’appello: la tutela indennitaria vantata dalla B. non può trovare accoglimento».